l’accorato appello di Antonio Padellaro dalle colonne del Fatto Qutidiano sembra aver sortito l’effetto di una sveglia. Già tre autorevoli risposte (Susanna Camusso, Maurizio Landini e Marco Bentivogli) hanno presentato tre punti di vista autorevoli sulla crisi del sindacalismo italiano e sulle possibili risposte. Da un lato non è possibile non registrare che c’è una consapevolezza evidente sulla crisi di ruolo che stanno attraversando tutte le organizzazioni di rappresentanza siano essere datoriali che sindacali. La globalizzazione, la transizione economica e sociale in atto e la mancanza di luoghi di mediazione e/o di redistribuzione efficaci rendono difficile l’iniziativa a tutti i livelli. Inoltre il continuo processo di disintermediazione e la nascita di movimenti politici e sociali trasversali riducono certamente lo spazio di manovra. Infine la deriva identitaria e la crisi del rapporto tra partiti e sindacati determina una schizofrenia nei comportamenti e nelle scelte che incide sulla militanza e sulla strategia dei differenti soggetti. Ultimo ma non ultimo la difficoltà per un semplice lavoratore giovane o meno giovane di comprendere se le differenze e le contrapposizioni manifestate dai più siano tali da giustificare la debolezza dell’iniziativa. Qualche decennio fa forse era più semplice: Obiettivo, lotta, risultato. Ma oggi, pur su obiettivi minimi e spesso di buonsenso, non c’è né lotta, né risultato. O, per dirla meglio, la distanza tra l’intenzione è la realtà è troppo ampia. Spesso la definizione dell’obiettivo stesso è materia complessa e macchinosa. Se prendiamo ad esempio il recente rinnovo del CCNL del Terziario non possiamo non registrare che la mancata applicazione dello stesso da parte di molte aziende aderenti a Federdistribuzione avviene nel disinteresse generale. Quasi duecentomila lavoratori senza contratto in aziende strutturate e con una discreta presenza sindacale senza un welfare decente e senza adeguamenti salariali ottenuti e operativi in altre aziende simili pur in realtà prive di una presenza sindacale significativa. È un paradosso, ovviamente. Come uscire da questa situazione? Personalmente credo alla necessità di un approdo legislativo sia sulla rappresentanza che sulle regole del gioco. Lasciare alle parti la materia, cioé ai rapporti di forza in campo, è roba di altri tempi. Mi ricordo il dibattito nel sindacato negli anni ’70 sull’esigenza o meno della legge 300. Oggi nessuno nega, nel sindacato, l’importanza che quella legge ha avuto per la crescita stessa della presenza sindacale nel tessuto produttivo e sociale del Paese. Ovviamente le regole senza una strategia servono solo a creare una nuova burocrazia. Ed è su questo che può e deve riprendere un rinnovato cammino unitario evitando che, la deriva identitaria, continui a produrre i suoi frutti nefasti. Segnali positivi ce ne sono in quasi tutte le organizzazioni e nelle rispettive categorie. Camusso e Bentivogli hanno indicato alcune piste possibili. Non ancora convergenti ma possibili. Ed è un buon passo in avanti. Landini vada pure per la sua strada e per salotti televisivi. Si perderà nel labirinto dei distinguo della micronesia leaderistica dell’estremismo inconcludente. Nei corsi aziendali c’è un detto crudo che rende bene la situazione: quando la velocità del contesto esterno è superiore a quella del contesto organizzativo interno la fine è cominciata. Forse è una profezia esagerata o forse vale solo per le aziende non per le grandi organizzazioni di rappresentanza. È sicuramente un’affermazione forte ma, credo, non possa non essere un elemento di riflessione vero all’interno delle organizzazioni stesse.