L’intervento di Giuseppe Bianchi di ISRIL ha il merito di togliere dal tavolo un equivoco che stava accompagnando la discussione sui livelli della contrattazione: i supposti vantaggi del decentramento della contrattazione nel territorio. Questa tesi ha certamente molti sostenitori di diverso orientamento e questo sta generando un dibattito dove, elementi obiettivi e ragionevoli si intrecciano con posizioni strumentali e tutt’altro che chiare. Secondo queste impostazioni, portare nel territorio dove l’impresa opera, un livello contrattuale sostitutivo o integrativo sarebbe più vantaggioso per tutti. Per il Sistema, per la produttività, per l’impresa e per il lavoratore. Insomma sarebbero tutti più soddisfatti e felici. Peccato che dietro a questa “idea” ci troviamo contemporaneamente chi vorrebbe sostituire un livello con l’altro, chi vorrebbe mantenerli entrambi specializzandoli e, infine, chi vorrebbe sommarne i benefici. Decentrare la contrattazione nazionale a livello aziendale è certamente complesso ma più comprensibile. Soprattutto per la grande impresa e, soprattutto, in settori senza la presenza di concorrenti diretti. Altrimenti all’azienda leader o a quella con una maggiore presenza sindacale toccherebbe pagare un prezzo maggiore senza alcun motivo rispetto ad oggi. Continuo, però, a non vederne i vantaggi per le piccole e medie imprese che oggi, limitandosi a rispettare in tutto o in parte il CCNL, non hanno ulteriori problemi sindacali. L’assenza di un elemento regolatorio e convenzionalmente accettato come il CCNL potrebbe addirittura portare a rischi di dumping contrattuale. Sempre che non si intenda rendere obbligatorio il confronto, garantendone il risultato comunque nel singolo territorio e, di conseguenza, in ogni parte del Paese. O addirittura di renderlo facoltativo e alternativo all’applicazione del CCNL di riferimento. In questo caso, dunque, solo impegno, discussioni inutili e burocrazia aggiuntiva per le imprese senza alcun corrispettivo concreto. Aggiungo che, mentre per i lavoratori il confronto sarebbe sul costo della vita di un territorio specifico, per l’impresa non sarebbe così. Il confronto è, già oggi, nella maggior parte dei casi, globale. Comunque non territoriale. E quindi non c’è nessun vantaggio a condividere forme di contrattazione che metterebbero l’impresa stessa in difficoltà rispetto ai concorrenti che operano in altri territori nello stesso segmento di mercato. Ma se non è vantaggioso per l’impresa la conseguenza immediata è che si cerchino soluzioni che, alla fine, inevitabilmente si ritorcerebbero anche contro i lavoratori. La proposta della Cisl sulla riforma della contrattazione, che è certamente la più completa, spiega chiaramente il carattere aggiuntivo o al massimo integrativo, quindi di scarso interesse per le imprese. Una start up artigianale o commerciale che si confronta con il mondo all’interno di una filiera specifica cosa c’entra, sul piano salariale, con il territorio dove è casualmente installata? E così una realtà economica di un settore specifico presente in un territorio ricco ma che fatica già oggi a reggere l’applicazione esclusivamente economica del CCNL perché dovrebbe trovare giovamento da un contratto territoriale? Infine, cosa dovrebbe spingere un piccolo imprenditore, che oggi si limita ad applicare la parte economica di un contratto nazionale, a rispettare un contratto territoriale più oneroso? Infine la libera scelta. Alcuni ribadiscono che sarà l’impresa a scegliere cosa applicare. È ovvio che l’imprenditore messo di fronte ad una alternativa sceglierà il “male minore” che non è detto coincida con l’interesse dei suoi collaboratori. Quindi andremmo a creare situazioni di conflittualità là dove oggi non c’è. Infine dobbiamo considerare che oggi abbiamo aree del Paese dove lo stesso CCNL non è applicato, addirittura settori economici interi dove non viene rinnovato senza alcuna giustificazione credibile se non dettata dai rapporti di forza oggi sfavorevoli al sindacato. Il caso della grande distribuzione è lì da vedere. Quando Federdistribuzione ha messo insieme le aziende associate (principalmente di grandi dimensioni) con esigenze e strategie diverse tra di loro era probabilmente convinta di poter fare un contratto nazionale specifico sganciato totalmente da quello di Confcommercio. Ma il livello di mediazione necessario per sottoscrivere un contratto con il sindacato non è accettabile dalle imprese che, fuori da logiche specifiche di scambio tra ciascuna di loro e le rispettive controparti aziendali, hanno vincolato, con un mandato molto rigido, i negoziatori impedendo, di fatto, un punto di incontro finale. La morale è semplice. Non se ne farà nulla. Oppure si “scimmiotterà” il CCNL del terziario lasciando, nel frattempo, il campo ad avvocati, tribunali e agitazioni sindacali che, anche se modeste, non sono utili alle imprese e al clima interno che servirebbe oggi. La contrattazione territoriale farebbe, secondo me, la stessa fine. Quindi tempo perso. Altra cosa sarebbe stabilire delle regole uguali per tutti a livello nazionale con le deroghe necessarie e spazi a livello di settore o di azienda. Per questo la riforma della contrattazione, secondo me, avrebbe bisogno di ben altre riflessioni di merito ma, soprattutto avrebbe bisogno di correttezza e lealtà di intenti. Se l’obiettivo è solo quello di ridurre il peso o il ruolo del sindacato come interlocutore non credo abbia senso cercare convergenze e condivisioni. Sarebbe solo una presa in giro. Altra cosa è se, dietro questa idea, c’è un progetto serio di ridisegno del sistema delle relazioni industriali del nostro Paese. Ma questo presupporrebbe mettere in campo una volontà progettuale di alto profilo che oggi non sembra all’ordine del giorno. Almeno questa è la mia sensazione.