I Quadri del terziario: quali prospettive contrattuali?

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In molti stanno ragionando sul futuro del management nelle imprese del terziario. Quando però si passa dalle mansioni/funzioni aziendali, spesso descritte in inglese, all’articolo 2095 del codice civile la cruda realtà giuslavoristica italiana ci impone di misurarci con il 900 e con due su quattro categorie ben precise: dirigenti, quadri, impiegati e operai. Non si sfugge. Il simpatico trio Reno a Zelig sosteneva l’alternativa secca:” o moto o ciclista”. È così anche per il codice civile. Non c’è “manager più qualcosa” che tenga. O dirigente o quadro. E i Contratti nazionali seguono necessariamente questo schema rigido. Come sempre sono gli aggettivi a fare la differenza. Il quadro ha funzioni di “notevole” importanza e autonomia, il dirigente ha “ampi” poteri e “rilevante” autonomia. In azienda, al contrario, non è così da molto tempo. Sono due popolazioni che, al loro interno, presentano sfaccettature e responsabilità ormai difficili da separare nettamente. Nel terziario di mercato convivono circa 25.000 dirigenti e 90.000 quadri. In sostanziale tenuta i primi, in crescita i secondi. Se non fosse per il welfare contrattuale, le differenze quotidiane, nelle aziende del terziario, sarebbero minime ad eccezione dei licenziamenti individuali. I benefit sono ormai presenti e diffusi in entrambe le categorie, le retribuzioni (ad esclusione dei top manager) non sono sensibilmente differenti. Addirittura, in caso di passaggio a dirigente, a parità di stipendio, il quadro rischia di perdere circa il 10% della retribuzione diretta pur trovandosi a disposizione un welfare previdenziale, sanitario e formativo, di buon livello. Il Quadro ha a disposizione Quas per l’assistenza sanitaria, Quadrifor e Forte per la formazione e Fonte per la previdenza, il dirigente ha a disposizione FASDAC per l’assistenza sanitaria, Mario Negri e fondo Pastore per la previdenza e Cfmt e Fondir per la formazione. Welfare più costoso, certo, ma di altro livello. I quadri sono stati riconosciuti formalmente come categoria a se stante solo dalla Legge n. 190/1985. I dirigenti hanno un contratto nazionale specifico, i quadri, al contrario, sono inseriti nel contratto nazionale dei dipendenti del terziario al punto massimo della scala parametrale. È però difficile trovare imprese che affrontano in modo differenziato queste due categorie anche perché in azienda si gestiscono risorse, team, progetti e non categorie contrattuali. I piani di crescita e sviluppo, le carriere, il coinvolgimento, quando ci sono, riguardano l’intera popolazione manageriale indipendentemente dall’inquadramento professionale. Nelle multinazionali è spesso difficile spiegare ai colleghi di altri Paesi questi confini esclusivamente “legali” e italiani nati e consolidati nel secolo scorso e che, per loro, non hanno alcuna ragione di esistere. In alcuni settori e specifiche realtà aziendali medio piccole, al contrario, il livello Quadro resta un punto di arrivo. Invalicabile. L’unico approccio possibile se si vuole trovare una risposta è nella segmentazione e nella differenziazione come peraltro avviene già nelle imprese. E allora, che fare? O si interviene nel CCNL dei dipendenti del terziario introducendo una nuova figura di “quadro superiore” come già presente altrove, o si introduce questa nuova figura nel contratto dirigenti. Personalmente propendo per la seconda ipotesi anche perché ritengo un’anomalia concettuale la presenza di una figura manageriale, non impiegatizia o tecnica, nel CCNL dei dipendenti del terziario. Ovviamente questo si potrebbe fare dopo una seria analisi di quale parte della popolazione, oggi di livello Quadro, potrebbe esserne coinvolta, quali ricadute in termini di vantaggi, costi per le imprese e sul sistema di welfare contrattuale dei dirigenti nel lungo periodo. Aggiungo che, secondo me, questa figura professionale introdotta forzatamente nella metà degli anni ’80 per iniziativa dei sindacati confederali che inseguivano una effimera convinzione di rappresentanza generale, non ha giovato né ai quadri né al necessario allineamento tra organizzazione aziendale, funzionalità dell’impresa e articolato contrattuale. Né alla pianificazione delle carriere e delle retribuzioni per le imprese “costrette” ad accettare come inevitabile una forte spinta verso l’alto anche per figure tipicamente impiegatizie; e così si sono trovate costrette a pagare inutilmente anche sul piano del costo del lavoro complessivo. Perché se è vero che ad un’azienda non converrebbe promuovere un quadro a dirigente, è altrettanto vero che avere figure apicali gestite come impiegati sul piano dello standing professionale, della motivazione e della partnership tra singolo e impresa genera non poche contraddizioni. Aggiungo che negli anni 80 le differenze sul piano retributivo, dei benefit e del ruolo erano molto più marcate rispetto ad oggi dove sia il CCNL dei dirigenti che il CCNL dei dipendenti del terziario non hanno portato quasi nulla di significativo a queste categorie se non un tentativo continuo quanto inefficace di difesa di quello che alcuni considerano “diritti acquisiti”. E questo è un errore strategico commesso da tutti i sindacati che, come sempre, piuttosto che affrontare i problemi posti dalle imprese sul piano generale, definendo limiti legittimi ma uguali per tutti, preferiscono chiudere gli occhi e lasciarli alla gestione del singolo e della sua impresa. O dei rispettivi legali.
Consentire alle imprese e ai manager di dotarsi di tutte le opportunità necessarie per affrontare la crisi, le prospettive di sviluppo personale e professionale e il consolidamento di un welfare contrattuale di qualità è un obiettivo raggiungibile. Lo è ancora di più se i contratti nazionali che accompagnano questi passaggi sapranno cogliere le esigenze di chi rappresenta i rispettivi interessi in campo. Pensare che ci sia ancora la possibilità di avere, come dicono in Polonia, “il lupo sazio e l’agnello intero” è una illusione che rischia di far pensare a molti che lo strumento contrattuale non sia più in grado di regolare efficacemente il rapporto di lavoro a certi livelli. O meglio che l’unico modo di regolare il rapporto di lavoro tra manager (siano essi dirigenti o quadri) e impresa è farlo individualmente rendendo così inutili o ridondanti i contratti nazionali di categoria.

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