Nelle discussioni sui futuri livelli della contrattazione la contrapposizione è ormai chiara: da un lato viene presentata una caricatura di un ipotetico contratto nazionale come uno strumento vecchio, distante dalle aziende e dai problemi reali e dall’altro l’opportunità di negoziare facilmente nei singoli luoghi di lavoro o altrove attraverso uno strumento nuovo di zecca: il contratto aziendale e/o il contratto di settore. Messa così, l’alternativa non si pone. Tra una cosa vecchia, distante, complicata, omnicomprensiva e una nuova, rapida e su misura la scelta sembrerebbe obbligata. Ma è proprio così o siamo di fronte ad una semplificazione furbesca o di chi fatica a comprendere il complesso sistema contrattuale e il sistema delle relazioni industriali nel nostro Paese? La vicenda FCA è emblematica nel suo essere un caso pressoché isolato e difficilmente imitabile. Un’azienda di grandi dimensioni, sostanzialmente unica nel suo settore esce dal CCNL di riferimento per costruirsene uno disegnato sulle proprie esigenze. Nulla di sconvolgente. Se avesse avuto la possibilità di derogare le norme ritenute obsolete e di non subire la reazione dei dissidenti e l’effetto paralizzante dei loro inevitabili ricorsi in tribunale, non lo avrebbe fatto. In quel contesto non era possibile fare altro sia per l’evidente opposizione della FIOM ma anche per problemi di equilibrio complessivo in Federmeccanica e quindi anche in Confindustria. Uscire da tutto ciò che avrebbe potuto ritardare il processo di cambiamento organizzativo in atto è stata una scelta tutto sommato, ragionevole. E, per questo, nessuno l’ha messa in discussione. Anzi, tre importanti organizzazioni radicate in quel contesto (FIM, UILM e Fismic) si sono dichiarate disponibili a seguire l’azienda in quel percorso. E infine, anche i lavoratori, visti gli esiti referendari, hanno approvato sia il percorso che il nuovo contratto. Cosa ha reso possibile quella scelta dunque? La presenza di un’azienda che gioca sul piano globale che rappresenta di fatto un intero settore, tre sindacati convinti e determinati a condividere una scommessa sul futuro e i lavoratori pronti a sostenerla. In altri contesti, però, non ha funzionato. Il caso di Federdistribuzione lo dimostra efficacemente. Una Federazione che raggruppa un numero importante di imprese della GDO (escluso le catene che fanno capo a Confcommercio, Coop e Confesercenti) decide di uscire dal contratto del terziario firmato da Confcommercio proponendo alle organizzazioni sindacali di farne uno specifico. Il quarto CCNL della GDO. Sarebbe bastato questo ultimo dato per fermarsi e riflettere, ma così non è stato. I vertici della Federazione si sono predisposti a impostare una piattaforma “nazionale” sostanzialmente indigeribile e impraticabile per qualsivoglia interlocutore e, infatti, nessun sindacato ha mai dichiarato esplicitamente di volere entrare nel merito. Al massimo qualche apertura generica sull’opportunità di continuare a confrontarsi e questo più per volontà di protagonismo di singoli esponenti sindacali che per reale disponibilità a concessioni concrete. Nonostante ciò si è preferito andare comunque avanti, forzando la situazione, abbandonando i fondi del welfare contrattuale del CCNL del terziario e lanciandosi in un negoziato senza rete sperando in una conclusione che, per come è stata prospettata fin dall’inizio alle imprese, non potrà mai esserci. Quando chi gestiva la trattativa si è accorto che Federdistribuzione non poteva continuare ad applicare sine die un contratto scaduto di cui non era firmataria e che non sarebbero stati in grado di farne uno nuovo, era ormai troppo tardi. Nel frattempo è stato rinnovato il contratto del terziario da Confcommercio lasciando Federdistribuzione e chi ne ha seguito la linea in una palude fatta di possibili ricorsi, agitazioni, malcontento dei collaboratori e isolamento organizzativo da cui sarà difficile uscire perché il livello di mediazione rischia di diventare sempre più difficile per tutti. E questo, sia chiaro, non è un bene né per le imprese né per i lavoratori. L’idea di farsi ciascuno il proprio contratto in una fase nella quale i contratti nazionali andrebbero ridotti e semplificati si è dimostrata ingenua e impraticabile. Quindi sostanzialmente inutile. Federdistribuzione aveva ed ha un ruolo ben più importante da svolgere nella tutela delle imprese della Distribuzione Organizzata. Si è purtroppo sottovalutato che le aziende della GDO hanno, negli anni, beneficiato dall’essere parte del CCNL del terziario. Addirittura lo hanno sempre condizionato a loro favore “nascondendosi” spesso dietro le difficoltà economiche delle piccole imprese e che, semmai, i guasti sono stati provocati proprio dalla contrattazione aziendale nella GDO stessa dove il rischio di volubili rapporti di forza interni (con minacce di blocco dei centri logistici e dei punti vendita) hanno spinto le DHR ad accordi tattici che, nel tempo, si sono rivelati trappole da cui, oggi, non è facile uscire. Inoltre la sovrapposizione temporale con il contratto nazionale della Cooperazione, che ha una necessità forte di riallineamento dei costi verso le aziende concorrenti che si riconoscono anche in Federdistribuzione, rende ancora più complesso il tutto. “Far da soli” ha senso quando l’obiettivo è quello di marcare un nuovo campo da gioco, insieme, non quello di “declinare crescendo” per riposizionarsi, in perenne lotta tra insegne. Un contratto nazionale senza scambio vero sui contenuti né basato su una scommessa sul futuro né su di un forte riconoscimento reciproco è fuori dalla realtà. Quello che è mancata è una leadership vera e riconosciuta di un’azienda con le idee chiare sulle altre come è sempre avvenuto in passato ma anche e soprattutto un’influenza e un’autorevolezza dei vertici della Federazione stessa sull’insieme delle imprese associate. E, mancando questa determinazione, non è stato trovato nessun interlocutore sindacale disposto a condividere quel disegno assumendosene le relative responsabilità anche perché, quelli che viviamo, non sono più tempi favorevoli ad accordi separati. Questi due estremi (FCA e Federdistribuzione) dimostrano che la strada maestra da percorrere è forse un’altra. Ed è quella già prevista dal CCNL del commercio che, non a caso, è il contratto nazionale più utilizzato dalle imprese italiane di ogni dimensione e di differenti settori del terziario. Quella che, in caso di necessità, possa prevedere delle deroghe di comparto da concordare su casi concreti all’interno di un corpo solido e riconosciuto. Si può fare di più e meglio? Certamente. Ad esempio studiando in futuro materie specifiche, nuovi livelli di competenza, maggiore autonomia, ulteriori deroghe. Ma questo solo all’interno di un CCNL unico, forte e rappresentativo. Questo, tra l’altro, consentirebbe di risparmiarsi “goffe” dichiarazioni sulla presunta insostenibilità di un aumento medio di 85 euro lordi scaglionati, di fatto, in quattro anni che l’insieme della GDO non potrebbe permettersi al contrario delle imprese dello stesso comparto e delle stesse dimensioni aderenti a Confcommercio. Solo una cosa un contratto nazionale o aziendale non può comprendere e cioè che una parte, unilateralmente, possa decidere quello che gli pare. Napoleone sosteneva che: “tutto si può chiedere ai propri soldati meno che sedersi sulla punta delle baionette”. Ecco. Se qualcuno pensa che la contrattazione nazionale o aziendale sia solo una richiesta formale di resa ai sindacati temo non abbia capito il contesto sociale e politico del nostro Paese. C’è una profonda differenza tra ciò che l’azienda può concedere individualmente e unilateralmente al proprio collaboratore e ciò che può o deve negoziare con i sindacati sul piano collettivo. Così come tra un livello aziendale dove può prevalere una esigenza interna o uno scambio anche “tattico” e un livello nazionale dove nessuno può imporre nulla alla propria controparte e tutto assume un rilievo politico e di principio. Per questo occorre un luogo terzo che definisca i minimi contrattuali, le norme generali e le regole del gioco evitando così il rischio di dumping tra aziende. E che si faccia carico del welfare contrattuale. Anche perché dovrebbe essere interesse di tutti il suo sviluppo, integrativo e complementare, al welfare pubblico con la creazione di masse critiche importanti. Inoltre nulla impedisce, ad esempio, di assegnare compiti precisi ai diversi livelli attraverso “clausole di dissolvenza” che lascino il tempo alle imprese che lo volessero di raggiungere accordi alternativi o applicare più o meno integralmente il CCNL di riferimento. Addirittura nulla impedirebbe di identificare un “minimo di garanzia” per ciascun comparto sotto il quale nessuno può scendere lasciando alle parti, nelle singole aziende, la possibilità di integrarlo verso l’alto o di comprenderlo con formule incentivanti o di coinvolgimento su specifici obiettivi aziendali. Ma questa non è una discussione che si può condurre sui media. Occorre che le parti sociali coadiuvati dagli esperti della materia possano confrontare proposte, soluzioni e contropartite accettabili. Modificare un modello contrattuale per renderlo attuale e in grado di rispondere alle necessità di oggi è di domani per le imprese e per i lavoratori non è materia semplice. La dimensione delle imprese, i settori, la loro collocazione nel territorio pesano quanto la cultura dei singoli imprenditori, dei lavoratori e delle loro rappresentanze sindacali. Trovare una soluzione non sarà semplice. Sicuramente sarà necessario.