La contrattazione tra passato e futuro.

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La contrattazione aziendale, è bene tenerlo presente, coinvolge una parte assolutamente minoritaria delle aziende italiane. Da oltre vent’anni, dove si realizza, è spesso “concessiva” da parte sindacale per le crisi grandi o piccole che si sono succedute nelle singole imprese o, addirittura, “restitutiva” nel senso che alcune cosiddette “conquiste” ottenute in momenti di forza dai sindacati sono state via via cancellate, congelate o limitate ai soli lavoratori più anziani. Quando comprende elementi economici legati ad obiettivi aziendali questi sono, nella quasi totalità dei casi, decisi dalle imprese. Nei casi concreti dove si può parlare di vera e propria “contrattazione” abbiamo, o una tradizione negoziale positiva in particolari imprese, o una situazione sindacale dove i rapporti di forza in campo sono ancora un elemento in grado di influire sul contesto. A fronte di questa realtà, mi sono domandato perché molti, e da versanti opposti, invocano il ritorno alla contrattazione aziendale come la “soluzione” senza porsi il problema di una necessaria evoluzione condivisa del contesto sociale e sindacale del nostro Paese. Il modello oggi in crisi, ha sempre fatto perno su un sistema “circolare” di natura sostanzialmente conflittuale. Il contratto nazionale di categoria ne ha costituito, per anni, l’elemento portante. La contrattazione aziendale integrava specificità e salario e innovava materie che poi avrebbero costituito elementi di proposta da estendere a tutti nella successiva contrattazione nazionale. Le crisi che si sono via via succedute hanno inevitabilmente modificato i rapporti di forza consentendo alle imprese, prima di depotenziare questo meccanismo, poi di volgerlo a proprio favore e, infine, di neutralizzarlo definitivamente. Nella proposta sindacale c’è un tentativo legittimo, ma di difficile accettazione, di ritorno a formule che, di fatto, sommano benefici tra i diversi livelli. E questo costituirà inevitabilmente un primo elemento di scontro. Perché va bene l’apprezzamento per lo sforzo unitario che sicuramente connota la proposta ma occorre considerare anche che, il conto di questo sforzo, non può essere semplicemente scaricato sulle imprese prima a livello nazionale e poi in azienda. Da questo punto di vista il negoziato sarà più importante, come sempre, delle intenzioni o dei desideri contenuti nella piattaforma. Così come lo scenario che un accordo vero su un tema così delicato può aprire in termini evolutivi del sistema. Alcuni osservatori sottolineano che è stata solo la forte preoccupazione di un intervento a gamba tesa del Governo a spingere i sindacati all’unità. Personalmente non ci credo. I segnali della necessità una ripresa del percorso unitario c’erano tutti. L’amico Massagli, un po’ malignamente, la definisce, però, una unità costruita “contro” e non “per”. Io penso, al contrario che, la ripresa del confronto, fosse comunque inevitabile. Così come la sua forte caratterizzazione difensiva e, in parte, tradizionale. Soprattutto dopo la “sortita” di Federmeccanica e la mancata chiusura di molti contratti nazionali. I risultati delle divisioni identitarie di questi anni sono sotto gli occhi di tutti e nessuna organizzazione, in termini complessivi ci ha guadagnato nulla. La ragione è che nessuno dei tre sindacati confederali è riuscito a proporre una strategia in grado di produrre benefici misurabili oltre i propri confini tradizionali. Il vecchio schema sindacale:”obiettivo-lotta-risultato” non funziona più e quindi il punto vero non è rappresentato da una piattaforma unitaria “contro” o “per” ma nella definizione di una strategia di lungo periodo. E questo comporta tempo che, sia chiaro, è una risorsa scarsa.
Se la riforma della contrattazione sarà, o meno, un primo snodo verso la costruzione di relazioni industriali innovative, collaborative e propositive allora il confronto avrà comunque avuto un senso importante. Se nessuno si fida di nessuno è difficile immaginare un sistema con oltre quattro milioni di imprese che, improvvisamente, si converte ad un “nuovo” modello a cui sono state storicamente estranee (o spesso contrarie) limitandosi a riconoscere quanto definito dal proprio CCNL di riferimento. Nelle imprese italiane vige un paradosso. Nelle piccole aziende (che sono la stragrande maggioranza) l’imprenditore generalmente non vuole avere a che fare con i sindacati preferendo un rapporto diretto con i suoi collaboratori. Semmai per la gestione di alcune problematiche tende ad affidarsi agli strumenti messi a disposizione dalla bilateralità. Nelle grandi imprese industriali i sindacalisti sono, al contrario, spesso presenti e coinvolti nelle strategie aziendali come o più degli stessi lavoratori dipendenti. Quindi esiste un problema di fondo che non è facilmente superabile. Nessuno, Governo compreso, può imporre nulla a nessuno. Il sistema attuale ha retto per oltre cinquant’anni perché i ruoli sono sempre stati chiari e condivisi sostanzialmente da tutti. Sfasciarlo è pericoloso perché aprirebbe ad una situazione di dumping tra imprese difficilmente governabile in un Paese come il nostro. Il mondo però è cambiato. La competizione, la tecnologia e la globalizzazione impongono a ciascun Paese organizzazioni e sistemi più coesi, moderni e aperti dove ciascuna parte in causa condivida rischi e opportunità. La partita sulla contrattazione è lo strumento ideale per cominciare a ridisegnare il sistema delle relazioni industriali dei prossimi anni. Per questo avere sul tavolo una proposta unitaria (condivisibile o meno) del sindacato è comunque importante. Certo non è risolutivo perché i problemi da affrontare restano ancora molti. Ma i negoziati servono proprio a questo. Ma questo, credo sia chiaro a tutti.

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