La foto proposta ieri sul Corriere si commenta da sola. Una delegazione “monstre” nel solco della tradizione militante dei metalmeccanici seduta e in attesa di un improbabile epilogo. Il rito è in pieno svolgimento. La vera novità è che, purtroppo, ci sono tre piattaforme (due sindacali e una datoriale) sul tavolo. E questo non fa presagire nulla di buono sulle modalità, sui tempi di quel negoziato e sulla possibilità che si concluda unitariamente. E questo mentre gli alimentaristi sono al palo e numerosi contratti bloccati. Le reazioni alla piattaforma di Cgil, Cisl e UIL sono state, tutto sommato, comprensibili. La proposta unitaria è probabilmente destinata a non fare molta strada così com’è. Definendola “di vecchia impostazione” o “irricevibile” sia Confcommercio che Confindustria hanno segnalato una disponibilità al confronto ma una indisponibilità di merito che complica ulteriormente il quadro di riferimento. Sull’altro versante, il Governo, sembra solo voler “scaldare i muscoli” a bordo campo minacciando di entrare in gioco. Evitare l’intervento del Governo sembrerebbe essere l’unico punto su cui le parti sociali convergono, almeno per ora. E tutto questo sembrerebbe comporre un quadro non esaltante e destinato addirittura a rendere improduttivo il confronto, quindi sostanzialmente inutile. La stessa pretesa del sindacato confederale di proporre un modello di difficile accettazione dal mondo delle imprese sembrerebbe confermarne il destino. È questa dunque la fotografia della situazione? Il pessimismo della ragione spinge molti a queste valutazioni. Sembra che nessuno senta, in realtà, il bisogno di costruire un nuovo sistema di relazioni industriali. E chi lo sente, non è in grado di imporre il passo necessario per realizzare quella parte di contenuti innovativi che, in parte, sono comunque presenti nella piattaforma sindacale. Senza una intesa, però, non si va da nessuna parte. Questo deve essere chiaro a tutti. Personalmente non immagino un accordo confederale dettagliato che valga per tutti. Penso, però, che un accordo quadro condiviso tra la parti sociali, sulla qualità della direzione di marcia, sia utile per il Paese. Lasciare le cose come stanno, cioè ai semplici rapporti di forza espressi dai rispettivi soggetti sociali in campo o alla buona volontà dei singoli, è un errore. Così come lo è stato in questi decenni. Questa impostazione ha lasciato interi settori scoperti e privi di diritti e di regole, ha consentito soprusi, ha favorito situazioni di dumping tra imprese, ha creato vincoli esagerati e situazioni dannose per molte imprese. I sistemi di “relazioni industriali”, costruiti intorno alla contrattazione, non hanno mai compreso fino in fondo la necessità e la difficoltà che comporta gestire “persone” in un contesto che cambia. Non ne hanno mai assecondato le aspirazioni, le attitudini, i desideri. Hanno pensato sufficiente circoscrivere il perimetro di riferimento tra “diritti e doveri”. Nel taylorismo o con il lavoro vincolato di massa questo poteva avere un senso. Oggi non più. In questo modo si è faticato a comprendere e a seguire l’evoluzione delle politiche di gestione e sviluppo delle risorse umane delle imprese restando spesso ancorati ad una cultura della difesa di interessi esclusivamente economici e normativi che, una volta neutralizzati, hanno, di fatto, marginalizzato il sindacato nella stragrande maggioranza delle aziende grandi e piccole. Lo hanno reso estraneo e incomprensibile, non solo ai giovani ma anche a tutti coloro che nel lavoro, nella crescita professionale e nella condivisione delle strategie del management della propria impresa ci hanno investito e si sono impegnati. Ma hanno marginalizzato anche chi di relazioni industriali si occupa nelle imprese e per le imprese, costretti a muoversi tra “diritti acquisiti”, norme e ricorsi alla magistratura in perfetta estraneità e lontananza dalle nuove culture aziendali. Quello che abbiamo di fronte è un contesto interconnesso e molto più complicato rispetto al passato che inserisce le singole aziende in filiere globali. Solo una rinnovata collaborazione tra imprenditori, manager e lavoratori può consentire di costruire un nuovo sistema di relazioni moderno, efficace e di reciproco interesse. E questo interesse lega la qualità, la quantità del lavoro, il suo riconoscimento, lo scambio realizzabile in termini di condivisione di rischi e di opportunità, crescita personale, welfare e integrazione della singola impresa nel territorio che la ospita. Alle organizzazioni di rappresentanza la scelta di assecondare questa evoluzione o di rallentarla. Che lo si voglia o no, nessuno la potrà impedire. Di Vico ha ragione quando sostiene che: “…non è la rappresentanza in sé ad essere freno al cambiamento ma la sua burocratizzazione, il prevalere degli interessi dei suoi dirigenti sulle rispettive basi sociali”. Da qui il mio “ottimismo della volontà” perché il futuro dei corpi intermedi si gioca proprio su questo.