L’art. 2095 del Codice Civile, definisce “categorie legali” le quattro tipologie di lavoratori subordinati (dirigenti, quadri, impiegati e operai) mentre i diversi contratti assegnano livelli, declaratorie, mansioni e qualifiche. Di conseguenza l’appartenenza di un lavoratore ad una categoria, livello o qualifica, stabiliti nella contrattazione collettiva, determina il suo status aziendale e il suo trattamento economico-normativo. I contratti nazionali, nel tempo, hanno cercato di aggiungere senso e contenuto alle quattro tipologie previste dalla legge definendo, intorno ad esse, mansionari, automatismi, scale parametrali e anche livelli intermedi. Nelle intenzioni sindacali questi sforzi hanno sempre puntato a creare le condizioni per una possibile crescita professionale dei lavoratori privilegiando, ovviamente, l’aspetto collettivo. Quindi la mansione in sé, non la qualità della prestazione. Per le imprese, che hanno sempre teso ad investire selettivamente sulle risorse umane, l’obiettivo è sempre stato quello di avere certezze sui costi e la corrispondenza tra declaratoria e lavoro effettivo. Ovviamente con l’intento di valorizzare la qualità della mansione, delle capacità e delle competenze personali richieste in rapporto agli obiettivi aziendali. Quindi privilegiando l’aspetto individuale. Gli esperti di organizzazione in azienda, nel tempo, hanno dovuto necessariamente declinare nuove terminologie, range retributivi, pesature di posizioni e ruoli specifici per cercare di gestire, contemporaneamente al necessario rispetto dei sacri testi negoziati, linguaggi nuovi e inquadramenti aziendali riconoscibili e confrontabili nelle diverse realtà e in differenti Paesi, adatti a gestire il potenziale, il talento, il merito e il mercato, che poco si conciliavano e si conciliano con la cultura tayloristica imperante nei dettati contrattuali o nell’aridità lessicale del codice civile. E, per questo, l’utilizzo, a volte a proposito, ma spesso anche a sproposito, della lingua inglese ha dato un contributo significativo. Ovviamente la tradizionale cultura contrattuale di stampo fordista ha lasciato irrisolti due problemi. Innanzitutto la rigidità del sistema. Indipendentemente dal contesto economico e temporale in cui il lavoratore opera, è stata sempre prevista solo la possibilità di crescere o, al massimo, di non decrescere economicamente e professionalmente. In altre parole il minimo tabellare, contrattualmente definito, salvaguarda il reddito raggiunto dal singolo lavoratore al di là del contenuto della mansione effettivamente svolta in un dato momento e della relativa qualità della prestazione. Questa impostazione che ha indubbiamente garantito il lavoratore fino a pochi anni fa, oggi, in caso di crisi aziendale o anche semplicemente a seguito dell’allungamento della vita lavorativa, rischia di ritorcersi contro il lavoratore stesso. O almeno di renderlo più debole ed esposto alla concorrenza dei lavoratori più giovani in azienda sul piano dei costi ma anche per la difficile impiegabilità sul mercato del lavoro. Collegato a questo diventa sempre più centrale il tema della formazione continua e della necessità che questa sia funzionale al mantenimento e all’arricchimento della professionalità del singolo, in azienda, ma anche in rapporto al mercato del lavoro con cui il lavoratore si dovrà, prima o poi, misurare. Il secondo problema è dato dalla relazione tra inquadramento e costo del lavoro complessivo. L’azienda oltre a dover gestire un carico fiscale e contributivo eccessivo spesso sconta un disallineamento tra inquadramento contrattuale e mansione effettivamente svolta dal singolo lavoratore. Disallineamento non facile da risolvere. Le stesse recenti innovazioni del Jobs act sul tema del demansionamento non hanno risolto il tema e quindi, sul punto, non è cambiato sostanzialmente nulla. Le imprese in passato hanno mascherato questa esigenza di “svecchiamento” complessivo legato ai costi con procedure di mobilità ad hoc e interventi “spintanei” almeno fino a quando questo si è rilevato possibile, concordandole con i sindacati. La carenza di risorse pubbliche e la modifica dei requisiti pensionistici hanno riaperto il problema nella sua dimensione reale di cui, i cosiddetti “esodati”, costituiscono solo la punta dell’iceberg. Le proposte di intervento a sostegno del reddito degli over 50 e gli scivoli per i lavoratori a pochi anni dalla pensione segnalano la persistente urgenza del problema e la necessità di trovare risposte differenti. La possibilità di formarsi e di riposizionarsi professionalmente nella impresa e sul mercato è un passaggio ineludibile ma questo impone di affrontare con urgenza il tema delle politiche attive e della qualità della formazione a completamento del Jobs act. Esiste indubbiamente un problema di approccio culturale che coinvolge le imprese e che riguarda la necessità di ritornare a considerare importante e ineluttabile l’impiegabilità degli “over” ma esistono anche problemi legati ai costi, alla flessibilità e alla rigidità dell’inquadramento contrattuale che non possono essere scaricati esclusivamente sulla singola azienda e quindi, in negativo, sul singolo lavoratore. Rivisitare i vincoli di legge e l’inquadramento con l’obiettivo di separare ciò che è destinato a tutelare il reddito minimo da ciò che può modificarsi in campo professionale nel tempo e ciò che deve essere messo in rapporto ai risultati aziendali significa spingere in direzione di un maggior coinvolgimento dei lavoratori sull’andamento economico e far crescere una maggiore consapevolezza della necessità di continuare a formarsi. Senza però lasciare il problema solo sulle spalle della singola impresa. Per questo la rivisitazione dell’inquadramento professionale è necessaria. Lo è ancora di più se la consideriamo una leva determinante del cambiamento culturale dei lavoratori e delle imprese.