Ormai è chiaro. Il confronto sui livelli contrattuali proposto da Cgil, Cisl e Uil non porterà a nulla di risolutivo. Almeno così sembra. La convinzione che bastasse sommare le reciproche posizioni in un rinnovato quadro di iniziativa unitaria si è dimostrata sostanzialmente inefficace. Nessuna controparte significativa pare intenzionata a coglierne lo spirito propositivo e ad entrare nel merito. Certo la tempistica scelta non sembra particolarmente centrata e, a parte i giudizi di merito, tre elementi ne condizionano il percorso. L’elezione del nuovo vertice di Confindustria e il rinnovo in corso del CCNL dei metalmeccanici nel settore industriale e i confronti ancora aperti nel settore del terziario che impediscono a Confcommercio di avviare un confronto utile e reciprocamente costruttivo. Detto questo, credo che alcuni elementi di merito dovranno caratterizzare qualsiasi ripresa di negoziato. Innanzitutto un principio credo, condivisibile da tutti: non si può distribuire ricchezza che non si è ancora creata. Quindi il nuovo modello dovrà necessariamente partire da qui. Non esistono né automatismi né scorciatoie praticabili. Soprattutto in fasi di inflazione bassa o assente. In secondo luogo il ruolo e il peso del welfare contrattuale anche in rapporto con quello aziendale; i suoi confini, le massa critiche necessarie e il conseguente consolidamento. In terzo luogo la formazione delle persone come strumento fondamentale di “ricostruzione continua” della professionalità dei singoli. Infine i luoghi deputati al negoziato, le materie specifiche da assegnare ai vari livelli e le eventuali deroghe. In questo contesto dovrà essere possibile anche prevedere la sospensione temporale di istituti in caso di crisi o in particolari situazioni territoriali. Così come dovrà essere possibile, la definizione di aree contrattuali in settori specifici dotate di relativa autonomia (ad esempio la GDO o la ristorazione nel terziario) che, pur rispettando il CCNL di riferimento per quanto riguarda alcuni istituti, possano derogare su materie specifiche e omogenee del loro comparto. Ottenendo così il risultato di ridurre notevolmente i contratti nazionali e di garantire la gestione delle peculiarità. Infine un tema che non appare mai ma che, personalmente, reputo fondamentale. La riforma del salario e dell’inquadramento. Pensare che si possa parlare di una efficace riforma della contrattazione senza affrontare questi due temi significa mettere in conto che la “montagna partorirà il topolino”. L’inquadramento risale agli anni ’70 del secolo scorso e non sarà certo una delle ennesime commissioni nei singoli contratti a garantirne modifiche significative. Bisogna innanzitutto chiedere al Governo, e quindi al Parlamento, di mettere mano, ad esempio, all’art. 2103 del codice civile e, di conseguenza, all’articolo 13 della legge 300 per affrontare, non tanto il tema del demansionamento, quanto quello della rispondenza effettiva del livello contrattuale (nuovo o vecchio) con la concreta mansione svolta. Senza trascinamenti derivati dall’anzianità aziendale, superando inquadramenti e mansionari obsoleti e limitandosi, ad esempio, a indicare range retributivi da mettere in relazione con nuovi e precisi riferimenti parametrali. La vera riforma passa da questo punto. E, partendo da qui, mettere mano alla struttura complessiva della retribuzione individuando ciò che dovrebbe costituire il minimo garantito nazionale (ad esempio parametrandolo alla CIG), ciò che è salario professionale da legare alle nuove scale parametrali e, infine, ciò che è salario da mettere in relazione all’andamento aziendale o ad obiettivi specifici. In questo modo si avrebbe una parte fissa e due variabili. La parte fissa e quella professionale di riferimento sarebbero trattate a livello nazionale, l’ultima a livello aziendale insieme all’allineamento di quella professionale alle esigenze specifiche dell’impresa. Le due parti variabili spingerebbero decisamente verso un modello dove la formazione e la crescita professionale diventerebbero un elemento decisamente più importante e condiviso così come un effettivo e non formale coinvolgimento su rischi e opportunità dell’impresa farebbe evolvere in senso collaborativo il contesto delle relazioni industriali. Certo non sono scelte facili. Soprattutto se si crede ancora possibile un ritorno al passato o un semplice aggiustamento della situazione attuale. Ma se riteniamo che l’azienda deve essere sempre più un luogo di creazione di ricchezza e, quindi, di collaborazione tra capitale e lavoro non abbiamo altra strada. Dobbiamo individuare gli strumenti per condividerne l’andamento, i problemi e le prospettive. Da entrambe le parti. Le nuove modalità organizzative da industry 4.0 in avanti e i nuovi modelli organizzativi e di business vanno in questa direzione. Le persone, il loro contributo e la loro qualità (impegno, condivisione, capacità e competenze) ritornano al centro dei valori e degli interessi dell’impresa. Meglio se con nuove relazioni industriali. La cosiddetta “disintermediazione” si impedisce solo se si abbandonano le rendite di posizione con proposte chiare. Per questo occorre che entrambe le parti si attrezzino dotandosi di una strategia e di una visione comune in grado di affrontare il futuro. Strategia che, oggi pare non esserci ancora.