Lo sforzo del riformismo sindacale nell’epoca della disintermediazione

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Nell’articolo di Rita Querzé sul Corriere è interessante la dichiarazione finale di Fabio Storchi Presidente di Federmeccanica il quale non ritiene affatto preoccupante il ricompattamento dei tre sindacati metalmeccanici. Anzi. Preferisce sottolineare i limiti e i problemi provocati dalla stagione delle divisioni. E quindi l’importanza di un suo superamento definitivo. Quella fase è chiusa. Lo si è constatato da parte di Confcommercio nel contratto del terziario, in quello dei chimici e degli alimentaristi da parte di Confindustria. Lo sarà, molto probabilmente, anche nei metalmeccanici. Lo stesso Bentivogli, segretario generale della FIM, nel suo intervento all’attivo unitario di delegati metalmeccanici del sud in preparazione del prossimo sciopero, ha cercato di mettere sullo stesso piano l’impegno unitario necessario per garantire la riuscita del prossimo sciopero con quello che occorrerà per costruire una nuova proposta altrettanto unitaria da contrapporre a Federmeccanica. Ha fatto bene, secondo me, a sottolineare che questo sarà il rinnovo contrattuale più difficile nella storia dei metalmeccanici. Nulla di epico, come quello del 1966, né generoso in termini di risultati come alcuni contratti successivi. È il primo contratto nazionale nell’era della disintermediazione. Di una disintermediazione che, nei fatti, è già in corso nelle imprese.. La vera domanda è se questo rinnovo fotograferà il tramonto di un’epoca gloriosa o se, al contrario, saprà contribuire ad aprirne una nuova. Nella posizione di Federmeccanica i ruoli sono chiari e assegnati. L’impresa è un luogo di creazione di ricchezza nella quale si deve determinare un nuovo patto tra capitale e lavoro. Non più l’azienda “mamma” che deve garantire “dalla culla alla tomba” ma un’azienda dove ogni contributo viene valutato, sviluppato e riconosciuto fino a quando i risultati lo consentono. Quindi, a quei risultati, tutti devono orientarsi e sentirsi ingaggiati. Un patto che presuppone un rapporto reciprocamente “maturo”, da rinnovare nel tempo attraverso nuovi strumenti formativi, professionali e partecipativi/collaborativi. Quello che è evidente è che non è affatto chiaro il ruolo assegnato al sindacato confederale. O meglio se ne coglie indubbiamente solo l’aspetto più “aziendalista”. L’imprese, la singola impresa, ha i suoi valori, la sua missione, i suoi obiettivi di business, i sistemi di incentivazione e di coinvolgimento sia per mantenere un clima positivo che sui risultati. Li propone e li concorda con una rappresentanza sindacale interna che sarà sempre meno divisa da contratti diversi, categorie professionali ma sempre più coesa verticalmente. La globalizzazione, l’integrazione nelle filiere, la tecnologia e quindi l’aggiornamento professionale necessario alla continua rinegoziazione del “patto” spingono in questa direzione. Per questo bene a fatto Bentivogli a siglare un patto con i professional della FCA. Il mondo va indubbiamente in questa direzione. A questo punto la palla passa al sindacato. A tutto il sindacato metalmeccanico. Unito nella protesta ma molto più difficile da unire sulla proposta. La posizione di Federmeccanica non è affatto debole perché risponde a quello che già oggi avviene nella stragrande maggioranza delle imprese. Questo passaggio contrattuale lo può sancire o meno. Il punto non è se ci sono mediazioni possibili. Queste si troveranno sicuramente. Per questo l’aspetto salariale rappresenta solo la punta dell’iceberg. La domanda centrale è se il sindacato saprà unitariamente proporsi come interlocutore credibile non solo per le imprese ma anche per i lavoratori stessi che, lo si voglia o meno, sono già chiamati a rispondere a queste sollecitazioni culturali e professionali nei diversi luoghi di lavoro.

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