I contratti di lavoro tra declino e nuove opportunità

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Sono assolutamente convinto che i contratti aperti vadano chiusi il più rapidamente possibile. I corpi intermedi hanno ragione di esistere se sanno comprendersi e trovare, insieme, sintesi positive. Per questo non vorrei generare alcun equivoco su questo punto. Ritengo però che sia comunque necessaria una riflessione oltre la linea dell’orizzonte del “qui e ora”. E, soprattutto cercare di distinguere ciò che è necessario fare da ciò che occorrerebbe fare per accompagnare la crescita e lo sviluppo delle nostre imprese. L’azienda di domani sarà profondamente diversa rispetto a quella di oggi. Questo è l’unico punto sul quale sembrano essere tutti d’accordo. Le divergenze nascono sul come arrivarci e sul cosa occorrerebbe fare. Molti imprenditori, sbagliando, credono possibile arrivarci da soli. Così come molte grandi imprese multinazionali o meno. Anche molti manager credono possibile arrivarci da soli. Passione, impegno, formazione e una dose massiccia di tecnologia. What else? Come direbbe l’attore George Clooney nella nota pubblicità del caffè… “Chi fa da sé, fa per tre” è ancora una convinzione diffusa. In alcuni casi funziona. Sia per l’imprenditore che investe su di sé e sulla propria famiglia evitando con convinzione e/o preoccupazione l’apporto di manager esterni, sia per il manager che mette entusiasmo e determinazione nelle proprie scelte professionali e pensa di conquistare, da solo, i traguardi sempre più sfidanti che lo aspettano. Qui sta il punto. L’impresa del futuro sarà profondamente diversa e non solo a parole. Gli imprenditori e i manager, oggi, chi più chi meno, spesso cercano di fare le cose che hanno sempre fatto in modo nuovo, domani, invece, tutti saranno chiamati a fare cose nuove in modo nuovo. Questa è sostanzialmente la differenza di fondo. E quel mondo va preparato, non subìto. Innanzitutto occorrerebbe costruire un terreno di convenienze positive e di convergenze di investimento tra Stato, imprese e singole persone. Se non si converge tutti sulla costruzione di un modello diverso sarà arduo costruire un nuovo approccio. Senza favorire la sperimentazione di soluzioni innovative nelle imprese, senza luoghi e occasioni di sviluppo della ricerca, della creatività, dell’ingegno delle persone e dei territori e senza investire sull’educazione dei giovani mettendo loro a disposizione nuove opportunità e metodologie sarà difficile fare sistema. E questo è un compito a cui le rispettive rappresentanze sindacali potrebbero dare un importante contributo. Aggiungo che, se usciamo per un momento dalla logica un po’ scontata sull’importanza della formazione in generale e dello sviluppo professionale è necessario porsi qualche domanda pur considerando e dando per acquisite le eccezioni e i comportamenti già virtuosi presenti in molte realtà. Pensando alla frammentazione del tessuto produttivo italiano e a condizioni attuali, perché le imprese tradizionali, soprattutto le piccole e medie, dovrebbero investire sulle proprie risorse? Perché dovrebbero favorire la crescita professionale senza nessuna garanzia che questo investimento sia utile e resti nell’impresa stessa? E come si lega il fatto che, mentre l’impresa tende inevitabilmente ad investire su una una formazione funzionale alle esigenze del proprio business, al manager (e non solo) interessa, sempre di più, investire su di sé guardando anche più lontano, oltre l’azienda dove è occupato? Per questo occorrerebbe ragionare in termini di sistema. Altrimenti le reciproche convenienze bloccheranno qualsiasi cambiamento significativo. Investire nell’immateriale resta un investimento ad alto rischio. Può produrre grandi vantaggi o pesanti conseguenze economiche sull’azienda quindi un rischio che non può più, come in passato, essere messo esclusivamente sulle spalle della sola impresa o del singolo imprenditore. Lo vediamo oggi dove gli investimenti sono al palo. E non cresceranno solo con la leva del credito. Questo implica più condivisione ma anche meno garanzie. Oggi i contratti di lavoro non sono così. Prevalgono tutele e condizioni costruite in un epoca dove avevano probabilmente ragione di esistere. Segnalavano una appartenenza, un confine, uno status giuridico e formale oggi ormai insidiato dal basso da Paesi e persone disposte a lavorare con meno garanzie e dall’alto dal consolidarsi nelle aziende di una visione di autosufficienza entro i propri confini di valori, mission e strategie. E a farne le spese rischiano di essere soprattutto i lavoratori. Per questo i contratti di lavoro futuri dovrebbero assumere un orizzonte nuovo. Sperimentare, osare di più uscendo dalla logica fordista che li ha caratterizzati fino ad ieri. Dovranno diventare contenitori di welfare vecchio ma anche aprirsi al nuovo, fissare i minimi sotto i quali nessuno può scendere e leggeri sulle norme che ha ancora senso che riguardino tutti ma, nello stesso tempo, consentire adattamenti, personalizzazioni, sperimentazioni.
Abbiamo bisogno di maglie larghe non di camicie di forza! Persone e organizzazioni hanno interesse a condividere rischi e opportunità. Ciò che oggi hanno a disposizione per realizzarlo è insufficiente. Il futuro dei corpi intermedi, dei contratti di lavoro nazionali, di comparto o aziendali passa anche da qui. Dalla volontà di confrontarsi sugli approdi possibili del lavoro nel nuovo paradigma economico e sociale a livello globale, delle imprese e di come si organizzano e del ruolo della legislazione e dei sistemi di regolazione che ne derivano. Però in questo ordine. Purtroppo si tende a partire da ciò che si ha cercando di adattarlo al futuro. Questo sforzo, pur lodevole, ormai non è più sufficiente.

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