Renato Curcio ha dedicato diversi libri al lavoratore della Grande Distribuzione Organizzata. Addirittura lo aveva elevato a nuovo potenziale soggetto rivoluzionario. Ha studiato per anni il rapporto tra lavoratore e azienda e tra lavoratore e cliente da lui considerato un “consumista isterico” e quindi paragonabile al “padrone” nella sua opera di pressione e sfruttamento dei lavoratori. Leggere i suoi scritti era (ed è ancora) veramente istruttivo per chi si occupava (e si occupa) di gestione delle risorse umane nel commercio per comprendere l’atteggiamento di molti lavoratori di una certa generazione verso i clienti in coda alle casse o di chi carica gli scaffali, dei banconisti o, infine, degli addetti alle pulizie. Nessuna indagine di clima allora avrebbe potuto sostituire la descrizione minuziosa di un rancore sordo e difficile da superare che per anni ha complicato qualsiasi intervento sul miglioramento della relazione con il cliente che le grandi catene cercavano di proporre nei comportamenti quotidiani. Il sociologo di Monterotondo si era appoggiato alla Uiltucs Uil milanese che lo aiutò in quegli anni a completare le sue ricerche sul campo concentrandosi soprattutto sulle realtà multinazionali di grandi superfici. Indagini prodotte negli anni 90 e che presentano uno spaccato del lavoro allora assolutamente sottovalutato da molti addetti ai lavori. In realtà non c’è stato in seguito alcun soprassalto rivoluzionario dimostrando che Curcio fosse più alla ricerca di conferme rispetto ad un suo pensiero maturato negli anni del carcere più che mosso dal desiderio di comprendere a fondo un soggetto sociale molto particolare che addirittura ha contribuito in seguito, seppur in minima parte, alla nascita di fenomeni politici e sociali esattamente opposti a quelli auspicati dall’ex BR. Dario Di Vico, in un articolo molto interessante sul Corriere di ieri conferma, nel lavoro della GDO, l’elemento di marcato fordismo che rende, quei lavoratori, in qualche modo assimilabili agli operai tradizionali dell’industria. L’esempio della cassiera di un ipermercato è ancora, in parte, calzante.Valutata più per la velocità con cui passava la merce alla cassa che sul rapporto con il cliente ha rappresentato la vera massa di manovra delle lotte sindacali della categoria negli anni che vanno dal 1980 fino alla fine del secolo scorso. Lotte derivate dalla esperienza sindacale fordista del settore industriale peraltro senza alcuna visione da parte del sindacato di categoria tesa a far crescere una nuova cultura sindacale più adatta ad un negozio in cui il servizio, in termini di qualità e quantità, era e resta fondamentale. Quando le cosiddette “conquiste” non sono state più compatibili con il contesto economico delle imprese, il sindacato prima ha cercato di difenderle, riservandole in esclusiva ad una sola generazione, poi ha dovuto inevitabilmente accettarne il loro superamento per tutti. E questo ne ha minato la credibilità. Oggi le aziende della GDO sono cambiate molto. Sia in termini di clima che di opportunità di crescita professionale. Le imprese nazionali e multinazionali investono ingenti risorse in formazione e sviluppo mentre i sindacati, soprattutto quelli che non hanno ancora abbandonato l’idea che fosse possibile difendere l’esigenze di una sola generazione sono stati messi, di fatto, alla porta. Le vicende legate al rinnovo del CCNL di Federdistribuzione sono lì a dimostrarlo. I residui di fordismo, ancora presenti, sono ormai in discussione. Ridotta la possibilità di confrontarsi con i concorrenti sul versante dei prezzi, della qualità e dei costi, le imprese stanno puntando su nuovi modelli organizzativi e di vendita, qualità del servizio, rapporto con il cliente sia in negozio che a domicilio. Senza parlare dei diversi comportamenti di acquisto indotti dai negozi di vicinato, dai discount, dai GAS, da internet e più recentemente dalle intenzioni di Amazon che non mancheranno di produrre profondi effetti e cambiamenti. Aziende come Carrefour, Esselunga, Finiper, Conad, Coop, tanto per citarne alcune tra le più conosciute investono in formazione e crescita professionale importi che le imprese più note del mondo industriale non impegnano più da tempo. Concordano forme innovative di welfare aziendale o sostengono, insieme ai sindacati e alle confederazioni datoriali, un importante welfare contrattuale di categoria, assumono e offrono opportunità di crescita ai giovani, fanno accordi con università come e quanto le imprese di altri settori. Non investono, però abbastanza nel presentare gli sforzi di questo impegno a 360 gradi per cui restano prigionieri di una opinione diffusa che assegna la qualifica di “povero” e quindi mal pagato, il lavoro che mettono a disposizione. Poco importa che per molte di queste persone, per condizione o per status sociale, non esiterebbero alternative concretamente praticabili. Così come per giovani studenti, per donne che abbisognano di flessibilità o che vogliono contribuire al reddito familiare. E, di fronte a questi cambiamenti sempre più forti e rapidi del settore il sindacato di categoria rischia di restare al palo perché non è in grado di accompagnarne l’evoluzione incastrato tra le esigenze delle imprese della Cooperazione, quelle di Federdistribuzione e quelle rimaste in Confcommercio. Qui sta il punto. O ci si rassegna alla crisi del fordismo e quindi alla crisi del modello che si è contribuito a costruire o ci si impegna ad accompagnare il cambiamento in atto. Il cambiamento del lavoro, dei modelli organizzativi, del rapporto con il servizio e con il consumatore, del riconoscimento del merito, del contributo del singolo lavoratore al successo del suo punto di vendita e della sua impresa e quindi della cultura sindacale o si continua ad inseguire questo o quell’interlocutore contando sulla disponibilità a sottoscrivere un contratto a qualsiasi costo. L’impegno delle Confederazioni sindacali e datoriali sul nuovo modello contrattuale è l’unica risposta seria che consentirebbe a tutti di superare lo stallo attuale trovando le risposte adeguate nell’interesse delle imprese e dei lavoratori. Il limite culturale del fordismo di marca sindacale è proprio quello di pensare che esista ancora una condizione comune di sfruttamento e di solidarietà tra uguali che, prima o poi, è destinata a manifestarsi. Non conosco l’organizzazione di molte imprese industriali ma basterebbe girare in un punto vendita qualsiasi della GDO per capire la ormai grande differenza tra capi reparto, specialisti, merchandiser, promoter, giovani assunti con le formule più varie di contratto con quello che resta della vecchia guardia sindacale. Henry Ford c’è ancora tra gli scaffali, questo è vero. Però sta per andare in pensione, Fornero permettendo.
P. S. A sottolineare ancora di più i cambiamenti in atto nelle imprese della GDO allego le recentissime 8 regole di Mario Gasbarrino AD di Unes per costruire un’azienda felice e vincente. Solo qualche anno fa, a leggere queste note, si sarebbe parlato di paternalismo o di un semplice esercizio di stile. Oggi, al contrario, fanno riflettere….
Giustizia e trasparenza: regole chiare-comunicazioni trasparenti-promesse mantenute
Attenzione al benessere: interessarsi sinceramente ai collaboratori-garantire luoghi di lavoro sicuri e piacevoli (sedie ergonomiche, ecc)
Sviluppo personale: formazione continua-attenzione ai talenti unici di ogni individuo-incentivare le idee e l’innovazione
Leadership e Management basati su valori e etica: proprietari e management che agiscono e vengono percepiti come modelli condivisi-fiducia condivisa nell’organizzazione e in chi li rappresenta
Responsabilità sociale: attenzione all’impatto che ha l’azienda sull’esterno (territorio, ambiente, fornitori, clienti, ecc.)
Reputazione: come l’azienda viene percepita-la fama che l’azienda ha, come se ne parla, quanto è conosciuta
Condivisione: degli spazi-oltre che delle informazioni-creare uno spirito di squadra fortissimo-trovare un senso comunitario
Uso del tempo: permettere alle persone di bilanciare professionale e personale