L’azienda, le persone e il sindacato. Quali prospettive?

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Nella stragrande maggioranza delle aziende italiane non ci sono, ormai da tempo, tensioni particolarmente significative su materie di lavoro. Semmai si dovessero verificare, in genere, vengono affrontate e risolte. È ormai molto raro trovarsi di fronte a problematiche collettive interne se non derivate da situazioni del passato o da vincoli organizzativi difficilmente superabili. Dove ci sono, le direzioni risorse umane presidiano il clima interno evitando che i problemi possano incancrenirsi. Dove non ci sono le direzioni risorse umane, esiste comunque una consapevolezza diffusa tra le persone e il management che porta a ricomporre quasi tutti i problemi di natura collettiva. Ogni azienda ha la sua cultura, le sue regole del gioco e le sue liturgie e le persone vi si adattano molto presto. Ovviamente ci sono aziende che coinvolgono di più i propri collaboratori e altre che non riescono ad uscire da vecchie impostazioni. Poi ci sono le imprese di settori in crisi o in ristrutturazione dove le relazioni interne sono più articolate. Se non sono guastate da gestioni inconsistenti, a fronte di soluzioni ipotizzabili (vere o presunte), scattano meccanismi di “solidarietà” tra le diverse componenti aziendali. Manager, dipendenti e loro rappresentanti tendono a fare squadra contro il “nemico esterno”. Quindi contro chiunque mette a rischio l’ipotetica via di uscita. Concorrenti dell’impresa stessa, fornitori, banche ma anche i sindacalisti che si mettono di traverso. Questi comportamenti segnalano una mutazione in corso nei rapporti tra capitale e lavoro che si sta diffondendo anche nelle imprese sane e che mette in crisi teorie sindacali date per immutabili e scontate. È uno dei tanti effetti collaterali della competizione globale. Questo contesto interno, pur differenziato tra aziende e settori, si inserisce in un quadro esterno fatto di preoccupazione per la situazione economica quindi sugli investimenti che, spesso, vengono rinviati o sono diventati talmente pesanti da diventare estremamente rischiosi a livello di singolo imprenditore, l’inflazione al palo che impedisce manovre sui prezzi, i rapporti con le banche e con i fornitori, in altri termini le relazioni nella filiera nella quale l’azienda è inserita. Infine le stesse regole del gioco derivate da leggi e contratti di lavoro pensati nel passato che impediscono operazioni di riallineamento tra merito e anzianità acquisita sia in termini di costo del lavoro che di inquadramento. Questi sono i problemi delle aziende di oggi e il contesto nel quale le problematiche collettive “esterne” tentano di entrare in gioco a volte in modo troppo tradizionale. È chiaro che l’interesse da parte delle imprese a dare mandato a chiudere i CCNL comunque non è così scontato considerando inoltre che l’intensità delle mobilitazioni sindacali, oggi, non è più in grado, in sé, di determinare un cambiamento di atteggiamento. Le difficoltà in cui si trovano le rispettive rappresentanze (datoriali e sindacali) nei confronti dei propri rappresentati nasce, in parte, da qui. Perché concludere un negoziato a livello nazionale se nella propria realtà di riferimento non se ne ravvede alcuna necessità? In alcuni comparti (ad esempio GDO, Turismo, ecc.) questo ha determinato un sostanziale blocco della contrattazione nazionale, ovviamente non di quella aziendale che però si conferma sostanzialmente di natura “concessiva” da parte del sindacato. Ad un sistema comunque in parziale destrutturazione si sono contrapposte realtà molto importanti che hanno scelto direzioni diverse. Confcommercio, il cui contratto nazionale ha scelto, insieme alle organizzazioni sindacali, la strada dello “scambio” su materie importanti di interesse delle imprese a livello nazionale (assenteismo, orari, ecc.) con in più la possibilità di derogare norme ad altri livelli. Per il terziario questo significa grande flessibilità applicativa, adattabilità alle singole realtà e soluzioni di utilità per le aziende che non vogliono impegnarsi nella contrattazione aziendale o territoriale. Un unico livello salariale salvo la possibilità di definire accordi aziendali sulla produttività o di ulteriore scambio su materie di interesse dell’impresa. Dal CCNL discende poi la bilateralità con i suoi fondi sanitario e previdenziale e con la possibilità di accedere a ulteriori servizi e strumenti messi in circolo dagli enti bilaterali. Federmeccanica ha scelto un’altra strada puntando sul “rinnovamento contrattuale”. Depotenziare (non eliminare) il ruolo distributivo centrale del CCNL limitandolo a chi non ha beneficiato nel passato di alcun adeguamento automatico spostando sul welfare e sulla formazione quote di salario differito lasciando alla contrattazione aziendale un ruolo più importante ancora tutto da definire. Un sistema funzionale per l’azienda medio grande quindi un cambiamento non di poco conto che, in questo modo, potrebbe consentire all’impresa di ritornare ad essere il luogo dello scambio vero. Chimici e alimentaristi, in considerazione della qualità delle relazioni sindacali che permettono già da tempo scambi significativi a livello aziendale, hanno deciso una soluzione più tradizionale nell’ultimo rinnovo del CCNL rinviando a prossime riflessioni una vera e propria riforma del sistema all’interno di ciò che sarà prodotto dal negoziato confederale. Quindi opzioni differenti che, partendo dalla storia e dalle specificità, disegneranno scenari differenti. Quello che manca per consentire un decollo (e un atterraggio positivo) dei negoziati confederali è quale direzione di marcia vogliono imboccare i sindacati metalmeccanici. Oggi non è chiaro. Alla proposta di Federmeccanica (condivisibile o meno) non è seguita una proposta unitaria altrettanto netta dei sindacati. Solo un rifiuto motivato dalla insufficienza della proposta economica di Federmeccanica condito da dichiarazioni che segnalano diverse sensibilità sulla possibile direzione di marcia futura. Ovviamente la complessità dei rapporti unitari in quel contesto spiega da sola queste difficoltà. Alla ripresa, però, le posizioni in campo dovranno essere più chiare. La sfida della “corresponsabilità” comprende sia la salvaguardia del ruolo del CCNL che quella del confronto a livello di singola azienda. Così come il modello proposto nel terziario che assegna al CCNL un ruolo più importante ma senza escludere forme di decentramento ad altri livelli. L’obiettivo di tutti è quello di individuare nuovi equilibri che costruiscano un rapporto tra parti sociali utile alle imprese e ai lavoratori. Il rischio è che qualcuno si chiami fuori o resti tagliato fuori. Per questo il collegamento tra il livello confederale e quello di categoria può giocare un ruolo fondamentale.

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