È di oggi la notizia che in Francia si vorrebbe ripristinare una sorta di servizio civile obbligatorio. Dai tre ai sei mesi per favorire l’integrazione sociale e l’adesione ai valori costitutivi di quel Paese. Se lo strumento individuato restasse solo questo il rischio è di cercare la classica risposta semplice ad un problema ben più complesso. In Francia, che lo si voglia ammettere o meno, chiamarsi Mohamed o Jerome non è la stessa cosa. Così come abitare a la Courneuve o nel deuxième arrondissement. E non è la stessa cosa anche nella ricerca del lavoro dove le discriminazioni sono all’ordine del giorno. Le banlieue (il cui significato letterale è: luogo bandito, ovvero luogo abitato da banditi) come elemento ghettizzante non sono una prerogativa delle grandi città, esistono anche nei piccoli paesi. Essere francesi bianchi o discendenti dei “pieds noirs” di seconda o terza generazione fa la differenza. E lo fa da sempre. È uno spaccato di normalità della Francia che non si è voluto mai affrontare se non sul versante della repressione e dell’emarginazione. Per questo rimontare questa realtà non sarà semplice. E necessiterà di interventi su diversi piani che vanno comunque portati avanti indipendentemente dai rischi di contagio religioso fondamentalista a cui la società francese resta comunque più esposta. L’idea però che un elemento di integrazione può essere dato da una forma di servizio civile obbligatorio è un punto su cui riflettere. Può essere una delle tante risposte necessarie. Ed è una delle risposte che deve cercare anche l’Europa. C’è bisogno di integrazione, di respirare valori condivisi, di credere in un destino comune. E allora perché non partire dal lavoro anziché dalla paura. Ho sempre condiviso l’idea che l’unico modo per ridare slancio ad una diversa concezione dell’Europa sia quella di ripartire dai giovani. Occorre impegno, passione, entusiasmo e convinzione. Negli ultimi dieci anni ho sentito diversi esponenti riformisti rilanciare la proposta di una sorta di servizio civile obbligatorio per il lavoro rivolto ai giovani a cui verrebbe proposto di passare, in un Paese europeo diverso dal proprio, un periodo di almeno sei mesi impegnati in uno stage lavorativo. Certo tutto questo comporterebbe costi importanti, problematiche organizzative impegnative, generosità e partecipazione delle imprese e una grande disponibilità e visione del futuro da parte dei Paesi ospitanti. Tutte cose difficili da realizzare, soprattutto di questi tempi. Però l’Europa è morta se non riesce a evadere dalla prigione che le generazioni che hanno via via sostituito i padri fondatori hanno costruito in tutti questi anni. E, per fare questo, occorre ripartire dai giovani, dalle loro speranze e dai loro sogni. Noi possiamo assecondarne le aspirazioni creando le condizioni migliori. Magari smettendola di litigare sullo zero virgola, sulle immigrazioni o sulle banche. Occorre renderci conto che senza un progetto che guarda al futuro sarà inevitabile rassegnarci alla frantumazione degli interessi, alla paura del vicino e del diverso e trasformarci tutti un po’ come la Francia dove l’altro, diverso o lontano da me, è il nemico a cui contendere il lavoro, il benessere, il diritto ad una vita dignitosa. Romano Prodi in una intervista recente accennava alla necessità che l’Europa osi di più. Tra USA e Cina che si contendono il futuro del mondo solo un’Europa che lancia idee innovative, che esce dal suo torpore e dalla sua inconsistenza progettuale, avrà qualche chance di successo. Personalmente condivido questo atteggiamento. E proprio per questo penso che occorrerebbe ripartire dai giovani cercando di costruire insieme a loro qualche cosa che li convinca che ne valga la pena, che li spinga a osare e a prendere in mano il loro destino. Oggi più che mai.