Credo ormai sia chiaro a tutti che la riforma dei livelli contrattuali dovrà affrontare un paradosso. Senza il contratto nazionale non si va da nessuna parte ma, il contratto nazionale, così com’è stato concepito negli ultimi cinquant’anni, non consente di arrivare da nessuna parte. Il CCNL, checché se ne dica, presenta, però, ancora dei vantaggi indiscutibili. Per i lavoratori costituisce una garanzia importante di equità. Dall’altro lato le aziende del settore coinvolto, lo accettano, lo rispettano e lo applicano. Quindi è ancora uno strumento che non lascia spazio a discriminazioni e dumping salariale tra imprese. Inoltre è l’unico possibile contenitore per un valido welfare integrativo. Se prendiamo il comparto del terziario, chi non lo ha ancora firmato (ad es. FIPE, Federdistribuzione, Cooperazione) lo vorrebbe comunque avere, seppure con contenuti diversi. Fuori dal terziario, salvo FCA e pochi altri, nessuna impresa chiede a gran voce di superarlo. Semmai lo chiedono gli opinionisti, spesso troppo sbrigativi, sulla materia. È indubbio che sia una situazione molto difficile anche per le organizzazioni sindacali di quei settori che si trovano in difficoltà proprio dove hanno la maggiore concentrazione di iscritti. Questa premessa per concludere che, senza regole certe, il semplice superamento del CCNL porterebbe, inevitabilmente, ad una marginalizzazione tout court della contrattazione. Si contratterebbe di meno, non certo di più. Marco Bentivogli, leader della FIM CISL, lo ha capito benissimo e quindi insiste nel proporre una contrattazione di secondo livello, integrativa di quella nazionale, come questione di democrazia sostanziale e chiede a Confindustria di condividerne la sfida soprattutto per quanto riguarda le PMI spingendo verso un modello territoriale. Il messaggio è chiaro. La corresponsabilità non può essere a senso unico. Occorre costruire insieme le nuove regole, fidarsi reciprocamente, rendere effettiva la contrattazione aziendale e, dove non dovesse essere possibile, bisognerebbe saper costruire una contrattazione territoriale sostanzialmente esigibile. Quindi estesa anche dove oggi l’applicazione del CCNL tiene il sindacato fuori dai cancelli. Anche perché il sistema attuale è erga omnes mentre quello proposto non lo è. Al momento, però, la FIM sembra parlare solo per sé. Federmeccanica (e Confindustria), sembra optino per un modello profondamente diverso dove, oltre ad un ruolo di garanzia sui minimi, al welfare e alla formazione affidati al CCNL sarebbe, di fatto, l’impresa che decide se coinvolgere o meno il sindacato, su cosa e, sostanzialmente, a quale livello aderire. Soprattutto laddove il sindacato non è presente. Non chiarisce (almeno per ora) l’entità, il modello e i luoghi dove rendere effettiva la corresponsabilità. Modelli e proposte non semplici da far coesistere. Inoltre nel metalmeccanico tradizionale la dimensione territoriale, in molte realtà, ha ancora un senso. Non è così in molti altri comparti. È vero che il territorio resta un riferimento economico e sociale comprensibile per tutti i lavoratori (costo della vita, consumi, ecc.) ma non lo è per le imprese. Soprattutto in ottica 4.0. “Costringerle” a vincolarsi ai risultati di una contrattazione avulsa dal loro contesto competitivo potrebbe rilevarsi un errore. Per questo continuo a pensare che l’unica strada praticabile sia rappresentata da un modello di CCNL che preveda deroghe applicative chiare. Deroghe che possono essere di comparto o di azienda. Oppure di territorio ma solo in presenza di territori sufficientemente omogenei. In altri termini una volta concordato il ruolo e il peso distributivo affidato al CCNL (individuando una sorta di nuova IPCA di riferimento) si potrebbe prevedere ciò che potrà essere derogato e dove, in che modo e per quanto tempo. Quindi la contrattazione aziendale, di comparto o di territorio disporrebbe, come minimo, di una quota che, se non distribuita, verrebbe (automaticamente?) riconosciuta ai lavoratori, oppure integrata ed aumentata se, lo scambio verrà ritenuto congruo da entrambe le parti stipulanti il contratto stesso. Tra l’altro, questo approccio, consentirebbe di superare lo scoglio rappresentato dall’alternatività o meno dei due livelli contrattuali che si integrerebbero positivamente, pur all’interno di regole precise. E questo, credo, aiuterebbe anche la chiusura del contratto dei metalmeccanici. È sostanzialmente il modello adottato nel terziario. Un forte welfare (previdenza e sanità) a cui si aggiungerebbe la formazione come diritto soggettivo, minimi contrattuali con meccanismi di assorbimento definiti, materie derogabili, diritti e doveri. In attesa di una vera riforma del salario e del contesto legislativo e fiscale collegato. Il punto centrale credo sia la qualità e la certezza dello scambio. E i reciproci vantaggi. Per le imprese e le loro rappresentanze ma anche per i lavoratori e le loro organizzazioni sindacali.