Un tempo i confini erano chiari. Salario, condizioni di lavoro, diritti. In altri termini più soldi e meno lavoro. Anche il promotore della contrattazione nel settore privato era sostanzialmente uno solo: il sindacato esterno o interno alle imprese. Poi il contesto economico e sociale ha imposto le sue regole e la contrattazione, ha, di fatto, cambiato spesso promotore affidando anche all’azienda e ai suoi manager il compito di ridisegnarne contenuti e confini. Quella è stata la fase nella quale sono stati rivisti innanzitutto poteri e ruoli dell’iniziativa delle rappresentanze sindacali interne e esterne che, nel tempo, hanno continuato a perdere peso. Nei contenuti, l’azienda ha ripreso (soprattutto nella grande impresa dove lo aveva in parte ceduto) il controllo del lavoro, della sua organizzazione, dei tempi e dei modi di esercitarlo. Tutto questo, però, ha retto fino a quando si trattava “semplicemente” di ridurre gli eccessi della fase precedente, ristabilire ruoli gerarchici e rapidità decisionali, tenere sotto controllo (e ridurre) i costi. Nel frattempo, nelle imprese, era cresciuta, via via, la consapevolezza che i nuovi modelli organizzativi, la marginalizzazione degli interlocutori collettivi, l’affacciarsi di nuove esigenze e di nuove generazioni poneva la necessità di gestire con maggiore attenzione il proprio capitale umano. Innanzitutto le proprie risorse chiave ma poi, sempre più collaboratori, attraverso sistemi di valutazione, di riconoscimento e di sviluppo professionale, con l’obiettivo di avere un clima interno positivo, una condivisione sostanziale dei propri valori e un impegno costante nella realizzazione di obiettivi di business sempre più complessi. In questa fase, c’è stato un forte ridimensionamento dell’area delle relazioni sindacali e un forte impulso alla altre aree delle direzioni risorse umane maggiormente dedicate allo sviluppo delle risorse. Le nuove forme di flessibilità in entrata (stage, TD, apprendistato, ecc.), l’obsolescenza degli inquadramenti contrattuali ormai datati, i nuovi modelli organizzativi e relazionali, il mutare delle esigenze, soprattutto delle nuove generazioni, le nuove tecnologie, la necessità di riconoscere l’impegno sia a livello individuale che di gruppi hanno via via modificato in profondità l’approccio di chi si occupa di risorse umane in azienda. L’approccio di Federmeccanica al rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ad esempio, è figlio di questo filone di pensiero. Non è un ballon d’essai ispirato da un banale tentativo messo in atto per contenere le richieste economiche. E farebbe male il sindacato, tutto il sindacato, a sottovalutarlo. Semmai occorrerebbe capire se e come sarà possibile, per loro, rientrare in gioco. E su quali materie. Tutto e subito non è proponibile. I rapporti di forza oggi sono talmente asimmetrici e sfavorevoli al sindacato da rendere estremamente difficile anche la sola esigibilità tout court della contrattazione aziendale. E la diffidenza delle imprese sulle reali capacità di cambiamento e di innovazione del sindacato è molto alta. Quindi la strada è in salita. Esistono però alcuni spazi che possono essere coperti. Innanzitutto il welfare contrattuale (previdenza, sanità e formazione). In secondo luogo un altro terreno di condivisione e di cambiamento potrebbe essere rappresentato da un approccio diverso al tema dell’inquadramento professionale. Marco Bentivogli fa il suo mestiere quando accusa Federmeccanica di non voler mettere mano ad un dettato contrattuale partorito nel 1973. Personalmente sono convinto anch’io che occorra affrontarlo. Però tutta la materia. Codice civile, legge 300 e contratti nazionali. Altrimenti non si innova nulla. Si creano solo le premesse per un inutile quanto infinito contenzioso legale. E qui capisco la cautela di Federmeccanica. Un altro tema potrebbe essere la struttura del salario che privilegia, in massima parte, il fisso sul variabile. In un contesto fordista poteva andare bene. Oggi no. Ad esempio il cuore dell’accordo aziendale del Fondaco dei Tedeschi a Venezia (concordato con i sindacati) prevede una deroga al CCNL del terziario tale da consentire un livello di inquadramento inferiore ma con un sistema incentivante robusto legato a obiettivi individuali e di gruppo. E, per i lavoratori, non è un passo indietro. Anzi. Però si potrebbe andare ben oltre. E poi il tema del welfare aziendale a 360 gradi. E qui il modello Luxottica docet. Ma non solo. In FCA i buoni benzina un tempo avrebbero fatto sorridere. Oggi sorride solo qualche sindacalista “old style”. Non certo i lavoratori che sanno bene la differenza tra netto e lordo. Ovviamente alcuni aspetti hanno senso solo nella media o nella grande azienda e in quei contesti possono essere sviluppati. Altri temi potrebbero trovare risposte in un sistema bilaterale rinnovato, a livello territoriale o in negoziati di comparto. Insomma questa discussione sui contratti e sui livelli del confronto può essere un momento importante per ridisegnare uno spazio vero di corresponsabilità e di nuovo protagonismo per il sindacato e per le associazioni datoriali. L’accordo sulle pensioni è lì a dimostrare che si può fare molto in termini di cambiamento di mentalità e di approccio. Almeno occorrerebbe provarci.