Il vaso di Foodora si è rotto. È ricostruibile?

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La metafora usata da Di Vico sul Corriere, a proposito del segnale emerso dalla vicenda dei bikers torinesi, è stimolante e, a mio parere, merita un ulteriore approfondimento. Il vaso di Foodora (l’azienda coinvolta nella vicenda) sostiene DI Vico, si è rotto e, con lui, molto probabilmente, è stato evidenziato, ancora una volta, la crisi del rapporto tra lavoro e consumo.

Nel recente libro “Che fine ha fatto il capitalismo italiano?” di Giuseppe Berta l’autore affronta il tema in modo netto. “…Il messaggio che ci viene dalle imprese high-tech, quelle che adesso hanno più facilità nel raccogliere capitali e convogliare liquidità, è che tutto domani costerà un po’ di meno di oggi.

Costerà meno prendere un’auto che ci porti a destinazione rispetto al taxi che eravamo abituati ad usare. Ma anche affittare un alloggio privato per due giorni ci costerà meno di un albergo è così via. Peccato che questo mondo low cost che esibisce il volto accattivante della sharing economy, dove la condivisione è vantaggiosa e, apparentemente ispirata al principio di un’essenzialità nemica dello spreco, remuneri inevitabilmente di meno anche il lavoro, sicché le due figure, quelle del lavoratore e del consumatore, che Henry Ford aveva congiunto cento anni fa, vengono di nuovo separate, riducendo per molti la capacità di reddito e quindi di consumo…”

E ancora.. “..High tech e low cost stanno attaccando frontalmente il mondo economico e produttivo di ieri, fondato sull’ipotesi di una espansione praticamente illimitata dei beni di consumo…” È l’altro volto della globalizzazione, bellezza! direbbe qualcuno.

Di fatto, una polarizzazione sempre più marcata di redditi, consumi e lavoro. Quindi un forte ridimensionamento della quantità e qualità del welfare, della contrattazione collettiva e delle politiche sociali in genere. Una società darwiniana dove chi si adatta o chi è più forte sopravvive mentre tutti gli altri, indipendentemente dalla loro nazionalità o dal luogo dove vivono, sarebbero condannati all’emarginazione.

Il sociologo Renato Curcio, più noto per altre vicende ma non per questo meno attento a questi fenomeni, sono anni che insiste sulle contraddizioni tra lavoratore e consumatore. Le sue analisi, pur datate, sui centri commerciali e sulla Grande Distribuzione, presentano l’altra faccia del consumatore di fine secolo: bulimico, isterico, alla caccia continua di tutti gli sconti possibili, desideroso di acquistare tutti i giorni della settimana, domenica compresa e sprezzante verso il lavoratore.

E, inevitabilmente, del lavoratore di fine secolo: circondato nelle sue conquiste sindacali (pause, lavoro domenicale, turnazioni), impossibilitato a migliorarle e indisponibile a condividerle con i nuovi assunti, rancoroso con il sindacato, irritato dal cliente e succube dalle continue riorganizzazioni e ristrutturazioni. Infine i centri logistici.

Luoghi dove i confini tra lavoro autonomo e lavoro dipendente sfumano in lavoratori tutelati dal sindacato e cooperative di dubbia costituzione dove l’etnia e la dipendenza da veri e propri caporali domina la scena. E questi, si badi bene, sono luoghi dove convivono, con queste contraddizioni, multinazionali, grandi imprese, sindacati, imprenditori, centri di ricerca, università, ecc.

Quindi dove esiste oggettivamente la possibilità di studiare i fenomeni, guidarli, correggerli ed eventualmente censurarli. Concludo, sempre con Berta che però ci suggerisce di tenere in considerazione che la risposta non è a portata di mano e soprattutto non è semplicemente riscontrabile in un modello fortemente normato e inclusivo come il modello tedesco infatti: “(esso).. appare in effetti assai meno proiettato all’innovazione di quanto ami raffigurarsi.

È la concezione di una forma di capitalismo che, lungi dall’essere vitale, ha bisogno del soccorso dello Stato per reggersi, e del cemento costituito da un blocco di interessi che agisce come un freno, non solo potenziale, all’innovazione e alla mobilità sociale… e oggi è questa forma di capitalismo a rischiare l’obsolescenza..”

Qui sta il punto e, da qui, bisogna ripartire, insieme. Imprese, sindacati, politica e studiosi. Non basta parlare di digital divide, industry 4.0, sharing economy. Né di prendere atto che i millenials o chi verrà dopo, di questo poco che c’è, dovranno accontentarsi.

Né di mettere le generazioni contro, una all’altra, sperando che la soluzione sia sostanzialmente in una più equa divisione di ciò che abbiamo ereditato dal passato in termini di welfare, spesa pubblica e debito conseguente.

Un cambio di paradigma determina inevitabilmente reazioni a catena. L’impresa e il lavoro devono cambiare in profondità. Così come diritti, doveri e welfare. Manzoni diceva: ” Non tutto ciò che viene dopo è progresso”. Personalmente lo condivido. Credo però che sia ragionevole pensare che, tra lasciare che il “nuovo” avanzi come un fiume in piena portando con sé i costruttori degli argini precedenti e lavorare insieme per costruire i nuovi argini la scelta sia obbligata.

L’importante è sapere che il fordismo anche culturale, che ci trasciniamo dal secolo scorso, delle imprese, dello Stato, del sindacato e delle associazioni di rappresentanza non ci darà più buoni consigli. Né ci indicherà una strada, anzi.

Ma qui passa o meno la possibilità di partecipare alla ricostruzione del nuovo vaso.

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