Fino al referendum sembrava tutto chiaro. Da un parte chi voleva cambiare il Paese, dall’altra tutti gli altri. In mezzo, ma comunque schierato con il NO, chi pensava comunque giusto cambiarlo ma non così come veniva proposto da Renzi e dal PD.
Nessuno poteva però immaginarsi cosa sarebbe successo il 4 dicembre. Né in un campo, né nell’altro. Né tantomeno i media o gli intellettuali schierati che continuano tuttora a non vedere i problemi di una parte del Paese tutti presi a fornire della realtà una lettura esclusivamente politicista cioè cristallizzata nelle logiche e nei riti della politica.
Tre incognite di cui nessuno aveva previsto le dimensioni. L’affluenza, il voto giovanile, le rabbia sorda delle periferie urbane e rurali. Tutte e tre queste incognite si sono riversate, pur con motivazioni differenti sul NO.
Non necessariamente sulla riforma proposta che pochi hanno preso in considerazione al momento della scelta. Un NO forte e chiaro che ha tante componenti e, non tutte, coerenti fra di loro.
L’affluenza, che rappresenta l’elemento unificante, indiscutibile della protesta e dell’esternazione del disagio sociale delle altre due incognite, il voto giovanile e la situazione di grave difficoltà che si vive nelle periferie urbane e rurali del Paese sono, a mio parere, gli elementi da cui partire. Altrimenti continueremo a cercare soluzioni semplici a problemi difficili.
L’ottanta per cento di NO sotto i 34 anni evidenziano una spaccatura generazionale fatta di mancanza di lavoro e di reddito ma anche di mancanza di comunicazione intergenerazionale.
Una spaccatura che nessuno riuscirà ad interpretare in chiave politica. Molti di questi giovani, pur saliti transitoriamente sul taxi dei 5 stelle, hanno capito benissimo che nessuno è in grado di fornire loro risposte sufficienti in tempi ragionevoli e utilizzabili concretamente.
Ma non protestano più in piazza come le generazioni precedenti. Si lamentano sui social prigionieri di un mondo che non riesce né a farsi sentire dal resto della società né ancora a costituire un blocco sociale forte in grado di ribaltare la situazione a proprio favore.
Lo stesso mercato del lavoro è stato costruito per mettere a disposizione modeste e parziali risposte, in termini qualitativi e quantitativi in una situazione di crisi e di mancanza di prospettive. Risposte frustranti, lontane dalle aspettative e dagli studi effettuati dai ragazzi stessi, che spesso contribuiscono a minare in profondità l’autostima di chi non è messo in condizione neanche di proporsi per un lavoro.
Restano solo i social dove condividere questa impotenza prendendosela contro nemici immaginari continuamente proposti da cattivi maestri. Ma se non finalizzata è gestita questa rabbia inconcludente sarà costretta a cercare sbocchi come un fiume carsico e a produrre inevitabili quanto gravi lacerazioni del tessuto sociale. Da qui si capisce perché il Jobs Act, ad esempio, non ha creato nessun entusiasmo nei diretti interessati. Anzi.
Così come la tensione che sta montando nelle periferie contro gli immigrati, i vicini di casa, nelle famiglie e tra le famiglie.
Disagio grave che ormai non è più gestito da nessuno. A parte gli schiamazzi dei populisti nostrani che rischiano di bruciarsi le mani loro stessi se continuano ad esacerbare gli animi senza offrire soluzioni. Di fronte a questa situazione la politica, purtroppo, parla d’altro. Di coalizioni, voto anticipato, consultazioni. I giornali imperterriti accompagnano questo teatrino che scava solchi profondi tra le elites e le persone normali.
Di Vico ci racconta spesso con grande lucidità delle modificazioni che attraversano il mondo del lavoro. Le tre classi proposte nei suoi articoli secondo la definizione del sociologo Antonio Schizzerotto (L’operaio cognitivo, l’operaio fordista, il nuovo proletariato della logistica ma anche dei servizi alla persona, facchini e badanti, soprattutto stranieri) non si congiungono però a sufficienza con il retroterra sociale e il contesto economico nel quale queste figure si muovono e interagiscono o si scontrano tra di loro. Né con il resto del sottoproletariato urbano o rurale che vive alla giornata in un contesto di lavoro nero, malavitoso o, addirittura, in semi schiavitù.
Questa miscela tra mondo giovanile, lavori sottopagati o marginali, lavoro nero, disagi abitativi e di relazione, modelli di convivenza si sta radicalizzando e, questi aspetti non trovano più nella comunità, nella parrocchia, nel sindacato, nella scuola o nella famiglia ammortizzatori sufficienti e credibili.
E questo mondo, sempre più emarginato, si trova di fronte solo qualcosa di inarrivabile, impalpabile, inutilizzabile, dotato di una comunicazione astrusa e tutta da addetti ai lavori. Una comunicazione che parla solo di più zero virgola del PIL, di “ce lo chiede l’Europa” che resta matrigna e lontana, di Borsa, di posti di lavoro che riguardano solo gli altri, di vitalizi, di sprechi, di attività economiche che chiudono e di immigrazione incontrollata.
E tutto questo ha preso via via sempre di più le sembianze di una persona, il Presidente del Consiglio, ritenuto unico e massimo responsabile, verso cui la politica (con la p minuscola) ha indirizzato tutti gli strali possibili per non condividerne le responsabilità che non sono assumibili se non dall’intera comunità nazionale e rifiutandosi di fare un’opposizione seria e costruttiva.
E lui, anziché comprendere questo disagio e questa avversione crescente e questa sua impossibilità a gestire da solo questi passaggi ha continuato imperterrito la sua strada in solitaria e la sua narrazione del Paese che vorrebbe e non quello che è e da cui non si può prescindere.
Adesso, però, sia chiaro, sono guai per tutti.
Per una sinistra salottiera e senza idee che ha lasciato a suo tempo le periferie per conquistare il centro ma che, in questo modo, non sa più capire le periferie e i problemi che vi insistono, per una destra populista che pullula di piromani ma non sembra avere capacità di una proposta politica equilibrata e per movimenti che presidiano la rete ma non hanno la più pallida idea di cosa sia un quartiere popolare dove convivono etnie, abitudini, rabbie differenti. E, da questo punto di vista l’esempio di Roma capitale è paradigmatico.
Una cosa a mio parere risulta molto chiara.
Che lo si voglia o no, è solo partendo da ciò che ha spinto una parte minoritaria seppur importante dell’elettorato, a chiedere un cambiamento vero che si può ricostruire una comunicazione concreta, un rapporto, una proposta con quella parte che, con altrettanta buona fede, si è trincerata con lo schieramento opposto. Quindi occorre ripartire dalle profonde ragioni di cambiamento vero di chi ha votato SI.
Se qualcuno pensa che la soluzione sia nell’approfondire le contrapposizioni non ha capito nulla.
Il referendum un cosa ce l’ha insegnata. Ci sarà chi lavorerà in questa direzione per acuire le contraddizioni sociali. I COBAS ci stanno già provando. Così come l’estrema destra.
I riformisti di entrambi gli schieramenti devono capire che quel NO non è solo un esercizio democratico assolutamente legittimo ma contiene anche veleno sociale, lacerazione, quindi pericoli per la stessa democrazia.
Per questo occorre ttrarne le conseguenze necessarie. E questo impegno non può essere lasciato solo alle forze politiche. Nessuno si deve permettere di scherzare con il fuoco se ha a cuore il futuro del Paese.