Otto ore di lavoro, otto per vivere e otto per riposare sono stati un obiettivo per molti anni nel secolo scorso del movimento operaio e sindacale. Una volta raggiunto, si è tradotto nelle leggi e nei contratti diventando un riferimento per tutti. Una convenzione, appunto, accettata da tutti.
Sopra questo limite c’è il lavoro straordinario, sotto il part time. Per molti lavori è ancora così. Per altri, i nastri orari e una diversa distribuzione dell’orario settimanale dovuta ad esigenze di ottimizzazione degli impianti o di servizio, hanno abbassato quella soglia.
A questo schema nato e cresciuto nell’era fordista si sono aggiunti ferie, permessi e quant’altro che, pur rappresentando legittime conquiste, accentuano il divario tra le ore potenzialmente lavorabili in un anno e le ore effettivamente lavorate.
Questo, ovviamente, per tutti quei lavori dove è l’ora di lavoro che può rappresentare un indicatore convenzionale accettato da tutti. Per altri è la prestazione in sé, la realizzazione o meno di uno o più obiettivi concordati a stabilire la quantità di tempo necessario al loro raggiungimento.
Quindi, in questi caso, le cosiddette otto ore sono solo un indicatore formale di riferimento ma non hanno nessun legame con la retribuzione o il tempo di lavoro. E, tutto questo, senza voler entrare nel merito del lavoro autonomo o professionistico dove l’indicatore orario è decisamente fuori luogo.
È del tutto evidente che se l’organizzazione aziendale cambia sia in termini qualitativi che quantitativi anche grazie alla introduzione di tecnologia o di innovazioni organizzative una tradizionale distribuzione dell’orario di lavoro produce inevitabilmente esuberi a meno che non si intervenga introducendo nuove attività supportandole con formazione adeguata e non si attivino politiche attive in grado di gestire le transizioni tra un posto e l’altro.
Ma queste politiche che, nel nostro Paese, a differenza che altrove, si configurerebbero già come risposte innovative e assolutamente necessarie non sono in grado, da sole, di rispondere a ciò che, la crisi da un lato e, l’innovazione tecnologica e organizzativa dall’altro, mettono già oggi a disposizione delle imprese.
Quindi la riflessione dovrebbe andare oltre e provare a comprendere la necessità stessa di alcune tipologie di luoghi di lavoro, il tempo e le risorse economiche che occorrono per raggiungerlo, le modalità di esecuzione e, di conseguenza, il tempo necessario al suo svolgimento e infine il suo corrispettivo economico.
Contemporaneamente occorrerebbe ragionare sugli eventuali recuperi di produttività e su come redistribuirli uscendo, però, da una logica fordista. Ovviamente tutto questo porta a ulteriori riflessioni sulla tipologia dei contratti, sul ruolo delle organizzazioni di rappresentanza e sulla loro prospettiva.
Giuseppe Sabella, sempre molto attento alle dinamiche del lavoro, ha scritto recentemente dell’esperienza emiliana a cui sta lavorando il giurista Piergiovanni Alleva. Al di là del caso specifico non sono molto convinto che quella sia la strada giusta. In altri termini temo che parlare del lavoro che c’è e su come distribuirlo su più teste non porti da nessuna parte. Non si esce dal paradigma fordista e quindi ci si blocca davanti alla entità dello scambio e a chi ne deve sopportare i costi.
Nel mercato globale le nostre imprese sono parte di filiere internazionali, ne condividono le strategie e ne subiscono i vincoli. Difficilmente li condizionano. E, in questi vincoli, il lavoro, se affrontato in modo tradizionale, è destinato a subirne le conseguenze in termini di quantità, qualità, costo e remunerazione. Addirittura di localizzazione. Sono gli stessi contratti di fornitura o di subfornitura che producono quei vincoli sempre più difficili da eludere.
E da questa situazione non se ne esce rivendicando una specificità nazionale ma solo cercando di ridisegnare e innovare i modelli organizzativi e la qualità del lavoro. Tra l’altro il recente contratto dei metalmeccanici e il piano Calenda possono dare un aiuto importante nell’evoluzione di questa nuova cultura.