Se per quanto riguarda una qualsiasi attività produttiva è possibile ipotizzare una sua riconversione non è così per un punto vendita della GDO. Soprattutto se di grandi dimensioni.
Se il fatturato non è adeguato il negozio, piccolo o grande che sia, va chiuso. Più tardi lo si fa, peggio è sia per la redditività complessiva dell’azienda ma anche per i lavoratori.
La reazione del sindacato, in questi casi, è generalmente pavloviana. Sanno tutti benissimo che non ci sono alternative e che la procedura non andrà oltre i 75 giorni ma nessuno se la sente di proporre altro, oltre a qualche ora di sciopero che, nella maggioranza dei casi, non serviranno a nulla.
Le parti sociali nel nostro Paese sono in grado di gestire qualsiasi situazione meno la più grave: il licenziamento. Se stiamo all’ultima vicenda in ordine di tempo e che coinvolge una grande multinazionale francese il comunicato della Filcams CGIL recita: “Le argomentazioni dell’impresa hanno portato ad evidenziare rilevanti problematiche sugli andamenti aziendali, quali il fatturato, il costo del lavoro e la redditività dell’anno. Gli ipermercati risultano particolarmente penalizzati”.
Motivazioni chiarissime. Ma per evitare un giudizio di merito il comunicato conclude con: “Le informazioni declinate dall’impresa sono risultate generiche e improvvisate”.
Si preferisce quindi addossare le colpe all’azienda, pronunciando frasi di rito, proclamando lo stato di agitazione e lasciar passare il tempo. L’azienda, dal canto suo, sa che questo è il prezzo da pagare. Un dialogo tra sordi.
Così come i trasferimenti di sede o di attività. Le aziende devono essere sempre attente ai costi. Ottimizzano strutture, semplificano gli organigrammi, concentrano attività.
Giampiero Castano, coordinatore dell’unità del ministero dello Sviluppo economico per la gestione delle vertenze delle imprese in crisi, ed ex sindacalista, insinua che queste operazioni possono nascondere la volontà di ridurre il personale. Non è così.
Due unità produttive sottoutilizzate o sovradimensionate sono entrambe a rischio. Concentrare le attività in una sola consente di gestire meglio i servizi comuni, gli affitti dei siti e determinare migliori sinergie. Molte sedi direzionali saranno a rischio nei prossimi anni. Così come molti siti produttivi.
L’insegnamento da trarre in queste vicende è se esistono o meno alternative di gestione e quindi se le parti sociali anziché agire o reagire passivamente, pur nel rispetto di leggi e contratti, sono in grado di assumere iniziative, individuare strumenti specifici, studiare formule di accompagnamento perché come sostiene Fabio Savelli, a commento di un ottimo articolo di Rita Querzé sul Corriere di oggi, “il proprio lavoro lo si salva solo spostandosi”. Su questo, fortunatamente, non partiamo da zero. In alcune categorie si stanno sperimentando opzioni interessanti. Però non ancora unitariamente.
È chiaro che per i singoli colpiti da un licenziamento la strategia del “il posto di lavoro non si tocca…” oggi non funziona più. Al massimo funziona nella prima parte della procedura. Poi scatta il “si salvi chi può”. Gli attuali ammortizzatori sono studiati per lasciare, di fatto, la persona sola con il suo problema.
Strumenti quali, il trasloco, la differenza sul costo di affitto, i distacchi temporanei, un interlocutore per le pratiche burocratiche, un supporto sui servizi sociali (scuola, sanità, relazioni, ecc.) e sulle modalità dell’inserimento lavorativo sarebbero molto più importanti se gestiti insieme dall’azienda e dai rappresentanti sindacali. Nelle aziende di cultura francese alcune di questi aspetti vengono gestiti attraverso il cosiddetto “plan social”.
Un insieme di strumenti che devono consentire al lavoratore licenziato di rimettersi in gioco. Ma con una assunzione di responsabilità anche dell’azienda che lo licenzia.
Nelle riflessioni sulle politiche attive il tema sulle concentrazioni di attività, sui trasferimenti intergruppo, i distacchi presso terzi, le nuove opportunità interne e la formazione aziendale necessaria e, non ultimo, tutti gli strumenti alternativi al licenziamento dovrebbero trovare la possibilità di approfondimento indispensabile.
Oggi il lavoro si perde e si trova dove c’è. Dare per scontato che quando lo si perde in un’azienda, lo si può trovare solo fuori e da soli non è così scontato. Almeno occorrerebbe crederci, superare i pregiudizi ideologici e provare ad individuare soluzioni percorribili.