Le iperbole del nostro Ministro del Lavoro, prima sui giovani che sono emigrati, poi sui curricula rischiano di superare, in popolarità le metafore di Bersani. Deve esserci, a sinistra, una gara non dichiarata a chi sa farsi più del male. Gara nella quale Giuliano Poletti è decisamente in testa. I problemi che solleva non sono, però, mai banali.
È banale, semmai, la loro rappresentazione ad un Paese che vive quei problemi sulla propria pelle. Il curriculum sta al lavoro come un qualsiasi “gratta e vinci” sta alla ricchezza. Purtroppo è vero.
Ma, giocare a calcetto, come propone il Ministro non è un’alternativa utile. Dentro un curriculum ci sono le speranze e le aspettative di chi lo scrive. C’è la sua autostima, la volontà di misurarsi sul mercato, di dimostrare le proprie qualità.
Spesso il protagonismo raccontato è esagerato e il linguaggio è incerto o incomprensibile. Ci si dimentica che un CV è scritto per chi, forse, lo leggerà. Lo scopo è suscitare curiosità e interesse. Non presentare la propria autobiografia personale e professionale completa.
Centoquarantaquattro milioni di curricula certificati sono girati nel 2016. Il tempo di lettura varia da 6,5 secondi a 20 secondi per quel 5/10% di essi che verrà letto da qualcuno. Difficile essere notati.
Tra l’altro, in Italia il mercato è dominato dal passa parola, dalla segnalazione o raccomandazione. Non necessariamente da intendere nella sua accezione negativa. A scuola non insegnano a scrivere un CV e nelle aziende, purtroppo, non sempre insegnano a leggerlo.
Un curriculum di trent’anni di lavoro non dovrebbe mai superare le due pagine e tutto ciò che riguarda esperienze precedenti ai 3/5 anni è di scarso interesse, per chi legge. Risultati raggiunti, contributi personali, scacchi subiti e ripartenze dovrebbero costituirne l’intelaiatura principale.
Per un giovanissimo più di ciò che ha fatto, meglio raccontare brevemente come e perché lo ha fatto. Ma un CV, pur scritto bene, senza un network sviluppato per tempo serve a poco.
E il network si sviluppa a scuola, sui social, partecipando ad iniziative, facendo sport o volontariato, mantenendo relazioni positive negli anni con i capi e colleghi di lavoro. Farsi conoscere e apprezzare è fondamentale.
E questo non lo si ottiene senza un impegno costante e continuativo non dimenticando mai che l’obiettivo di un curriculum non è ottenere lavoro ma è ottenere uno o più colloqui. Quindi è meglio essere sempre se stessi utilizzando un linguaggio consono.
Chi legge, se è in azienda, sa bene cosa gli hanno detto di cercare. Conosce i valori dell’azienda, la sua organizzazione, pregi e difetti di chi sarà il futuro capo, e del team. Può anche permettersi di sbagliare scartando un ottimo CV sapendo che nessuno se ne accorgerà mai. Chi scrive non sa quasi nulla di tutto questo. E spesso manco si informa.
È un campo dove, tra l’altro è difficile innovare. Però c’è chi può fare di più. La scuola, certamente, avvicinandosi di più al mondo del lavoro, inserendo nei propri programmi la scrittura del CV e il colloquio di lavoro. Magari chiedendo alle aziende del territorio di essere parte attiva sfruttando l’opportunità offerta anche dai percorsi di alternanza.
Le agenzie per il lavoro potrebbero attivare un canale di supporto in questa direzione, le stesse società di outplacement che più di altre conoscono bene il lavoro necessario per far riflettere le persone sul loro percorso e su come presentarlo. Si può fare molto.
L’unica cosa che non si deve fare è banalizzare un tema e una strumentazione che, per quanto criticabili e poco efficaci, rappresentano il mezzo con cui le persone, in perfetta solitudine, cercano di affrontare un mercato del lavoro sempre più complesso.
Le gaffes di cui si rendono protagonisti ministri e vice ministri del lavoro in carica sono sempre più frequenti e dovrebbero far riflettere, più che suscitare ironia, in un Paese normale. Altrimenti il “calcetto” dovrebbe essere riservato a chi fa queste battute.