Mala tempora currunt….

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Le dinamiche messe in atto dall’esito referendario stanno rimettendo in moto il quadro politico italiano e, di conseguenza, le dinamiche che attraversano i corpi intermedi.

Sul fronte datoriale la debolezza di Confindustria è evidente. Le vicende interne pesano. La stessa difficoltà a chiudere l’accordo confederale con i sindacati lo dimostra come il fatto che, i suoi comparti, hanno preferito chiudere i rispettivi contratti nazionali manifestando la volontà di mantenere comunque una forte autonomia settoriale.

Inascoltata dal Governo sui voucher (come purtroppo tutte le organizzazioni datoriali), sta tentando di rimettersi in gioco lasciando intendere al Governo la possibilità di uno scambio tra l’aumento del’IVA e una riduzione del cuneo fiscale. Scambio che non farebbe bene al Paese.

Ma, al netto dei problemi specifici di Confindustria, questa difficoltà a rientrare in gioco per poter dare il proprio contributo propositivo al rilancio del Paese è un po’ di tutte le parti datoriali. E questo non è un bene di fronte alla accentuata debolezza della politica, alle sue divisioni e in un contesto internazionale profondamente mutato.

Se Atene piange, però Sparta non ride. Nel campo sindacale ciò che i contratti nazionali avevano prodotto di buono sul terreno dell’unità tra le diverse sigle confederali e con le rispettive controparti rischia di essere vanificato dalla divaricazione che pare inarrestabile tra la CGIL e le altre due confederazioni.

Il protagonismo messo in campo dal primo sindacato italiano è evidente. La “vittoria a tavolino” sui voucher è solo il primo segnale. È difficile non cogliere nei propositi di Susanna Camusso la volontà di approfittare della debolezza della sinistra politica (vecchia e nuova) per contribuire in modo determinante a ridisegnarne il campo.

La CGIL, come peraltro le altre organizzazioni sindacali, ha capito benissimo che nelle aziende il vento è cambiato profondamente. Tra i lavoratori c’è preoccupazione per il proprio futuro e per il contesto ma c’è voglia di dare il proprio contributo, di impegnarsi e di fare la propria parte nell’interesse dell’impresa e del lavoro.

C’è, in sostanza, voglia di collaborare, di investire su se stessi e nel rapporto con la propria azienda. Certo permangono situazioni di crisi, anche grave, dove i sindacati sono costretti in un ruolo tradizionale. Ma, queste realtà, non rappresentano la norma.

Non è un caso che i contratti nazionali si siano chiusi unitariamente e il dissenso presente nell’elaborazione delle differenti piattaforme è improvvisamente scomparso lasciando il campo ad una volontà convergente nelle singole categorie. Così come non è un caso che, proprio la CGIL, ha messo in campo una spinta decisiva per chiudere rapidamente i rinnovi e formalizzare gli accordi sulla rappresentanza e sui livelli della contrattazione.

A tutto questo, però, non è seguito nessun forte ridisegno dei rapporti unitari né la volontà di riprendere una iniziativa comune che rimettesse al centro un ruolo propositivo dell’insieme delle parti sociali. È un po’ come se l’obiettivo politico della CGIL di contribuire a ridisegnare in prima persona il campo della sinistra fosse comunque prevalente a tutto il resto e quindi necessitasse di sgomberare velocemente il terreno da tutto ciò che poteva in qualche modo ritardarne l’implementazione sociale. Contratti nazionali compresi.

È vero che CISL e UIL confederali sono in evidenti difficoltà sul piano dell’iniziativa generale ma nelle rispettive categorie la generosità e la disponibilità messa in campo sul terreno unitario faceva ben sperare. Vedremo le prossime mosse.

È chiaro che una CGIL che si dovesse caratterizzare sempre più come soggetto politico è comunque destinata, prima o poi, a entrare in rotta di collisione con l’insieme del sistema della rappresentanza. E questo non è un bene. È già successo in altri Paesi con un esito scontato.

Il vero problema è che una CGIL che si dovesse sottrarre per mero calcolo politico ad un ruolo unitario e di proposta con l’insieme del sindacato confederale propedeutico ad una convergenza tra capitale e lavoro commetterebbe un grave errore destinato ad essere pagato da tutto il Paese. Purtroppo i segnali di questi giorni non sono incoraggianti.

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