C’è voglia di cambiamento nel Paese. E non solo nella politica. Ci sono persone chi interpretano questa voglia voltandosi indietro e chi, al contrario, cerca di trovare risposte, guardando in avanti.
La politica interpreta queste volontà agitandosi in entrambe le direzioni. Il mondo del lavoro e della rappresentanza, almeno fino al referendum istituzionale, ha tentato di tenere insieme quanto di buono veniva dal passato con un presente difficile cercando, però, per quanto è possibile, di interpretare il futuro.
D’altra parte la profondità della crisi e l’Europa presentata come matrigna hanno purtroppo rappresentato per molti solo un grande alibi. Il cambiamento necessario vissuto come una maledizione inevitabile. Quindi subìto.
Comprensibile nei singoli individui perché disorientati non in chi li dovrebbe rappresentare perché il futuro non si subisce né si immagina; si fa. E, purtroppo, lo si deve fare operando quotidianamente tra chi ipotizza cose mirabolanti ma lontane e forse improbabili e chi, incapace di uscire dal porto, ripropone costantemente l’illusione di un ritorno al passato. Ma le navi non sono costruite per essere tenute ancorate nei porti.
Purtroppo quello dei corpi intermedi è un mondo un po’ autoreferenziale dove tutti pensano di avere molte ragioni e dove i torti, semmai, sono sempre degli altri. Il recente intervento di Marco Bentivogli sul Foglio ha il merito di rompere gli schemi e di proporre uno scenario con il quale è necessario confrontarsi. Uno scenario in movimento per tutti.
Da un lato la CGIL e la sua carta dei diritti. Dall’altro i pentastellati che ripropongono la disintermediazione nel lavoro scegliendo come compagno di viaggio il rancoroso ex FIOM Cremaschi. Quest’ultimo, con i Grillini, sembra però avere un solo obiettivo in comune: delegittimare il sindacato confederale.
Tutte strade, queste, decisamente impraticabili. Sicuramente per il mondo delle imprese. Così come sarebbe un errore accettare come inevitabile il declino propositivo unitario delle organizzazioni di rappresentanza. Il rischio dell’irrilevanza dei corpi sociali si combatte entrando nel merito delle questioni poste. Anche da sindacalisti come Marco Bentivogli che segnalano l’avvicinarsi del punto di non ritorno. Non solo per il sindacato confederale.
Innanzitutto nel prefigurare un futuro possibile nel quale dobbiamo essere tutti consapevoli che la tradizionale divisione del lavoro tra terziario, industria e agricoltura sta mutando rapidamente.
I tradizionali confini settoriali stanno venendo meno. La conseguenza di questa nuova divisione del lavoro è che l’industria tenderà sempre di più a terziarizzarsi e il terziario tenderà inevitabilmente ad industrializzarsi cercando di realizzare economie di scala nella gestione dei servizi, dei dati e delle conoscenze.
Nelle filiere globali che stanno emergendo da questi nuovi modi di lavorare tutto ciò che può essere meccanizzato e codificabile verrà sempre più attratto inevitabilmente da luoghi dove i costi sono minori (lavoro, energia, tasse, vincoli amministrativi e ambientali) o al contrario dove esistono capacità e talenti di eccellenza in specifiche situazioni.
Quindi la capacità del sindacato di trovare nuovi livelli di mediazione può fare la differenza. La vicenda FCA lo dimostra inequivocabilmente. Le conseguenze che questa prospettiva può avere per l’attuale assetto anche della rappresentanza sia imprenditoriale che sindacale, ancorate tuttora a un modello che deriva dal secolo scorso è facilmente immaginabile.
Il compito della nuova rappresentanza, che voglia impegnarsi a gestire la transizione in corso, è dunque di aiutare le imprese e il lavoro, che si presenta sempre più anche in forme differenti e deregolamentate, a non esserne travolti presidiando alcune azioni chiave. Innanzitutto investendo sul capitale umano e sulle infrastrutture necessarie alla rivoluzione digitale/globale in corso.
Poi impegnandosi a promuovere le innovazioni collettive (politiche, contrattuali, sociali, infrastrutturali, normative, di welfare e di apprendimento/ricerca) che è necessario realizzare per sostenere i percorsi delle imprese e dei lavoratori nel difficile confronto con i nuovi competitors. E su questo, gli ultimi rinnovi contrattuali hanno cominciato a dire qualcosa di nuovo.
Infine occorre stimolare lo sviluppo di iniziative che favoriscano forme (chiamiamole pure come vogliamo) di collaborazione intraprendente, corresponsabilità, partecipazione, condivisione del rischio tra i tanti soggetti coinvolti dai percorsi di transizione a monte, all’interno e a valle dell’impresa.
Ultimo ma non di minore importanza occorrerà partecipare alla trasformazione in senso creativo ed efficiente dei contesti di vita e di lavoro che condizionano produttività e creatività delle imprese (smart cities, ambienti creativi, attrazione dei talenti, relazioni utili con la ricerca e le università, servizi innovativi di welfare ecc.).
Per fare tutto questo non occorre disintermediare alcunché. Occorre esattamente l’opposto. Occorre più rappresentanza, seppure diversa, non meno.
Marco Bentivogli ha fatto bene a lanciare un segnale forte a tutto il sindacato (e non solo alla sua parte) segnalando l’urgenza dei cambiamenti necessari e la loro direzione di marcia. Sarebbe importante che la sfida venisse raccolta da tutti.