Nella mio percorso professionale mi sono sempre trovato a gestire le risorse umane di aziende in crisi di identità. Alcune perché acquisite da gruppi esteri desiderosi di riorientarle, altre perché erano arrivate a fine corsa.
Il mio compito era sostanzialmente quello di tagliare tutto ciò che era possibile tagliare, riorganizzare, formare le persone a nuovi compiti e funzioni, investire sui giovani e mantenere un clima accettabile evitando conflitti con i sindacati in situazioni dove amministratori delegati e colleghi duravano mediamente un paio di anni.
Ogni azienda ha una sua cultura profonda e radicata a cui, ad ogni cambiamento di top manager, se ne sovrappone un’altra. Quella sottostante, però, resta. In genere è figlia dei successi del passato. Cova sotto la cenere. Non è necessariamente legata all’età dei dipendenti. È nell’aria, nei muri, negli sguardi e nei modi di fare.
Dall’addetto alla reception fino al manager che sta per essere messo da parte, misura, giudica, comprende o condanna chiunque cerchi di portare cambiamenti significativi.
Spinge, come in un eterno gioco dell’oca, a tornare sempre al via. Ad ogni avvicendamento di top manager viene riposta “alla bella e meglio” laddove non risulti evidente così tutti possono fingere di indossare la maglietta nuova.
E spesso, la nuova cultura, non esiste o non ha la forza per insediarsi per limiti temporali, per inconsistenza o per mancanza di risultati. È solo il portato di chi, appena arrivato, gioca le sue carte perseguendo, a volte, i suoi interessi personali.
E questo alimenta le convinzioni negative più profonde. Questa lotta tra culture termina quando l’azienda continua ad avvitarsi sul suo business, cambiando manager in continuazione e non investendo più sulle persone. Perde la sua ragion d’essere, la sua anima. Subentra un cinismo profondo, una devitalizzazione, una rassegnazione.
L’azienda è una comunità determinata dal clima che vi si respira, dai valori che trasmette, dai riti e dalle liturgie che la contraddistinguono. È la comunicazione giornaliera dei rispettivi responsabili, quella voglia di fare e di essere orgogliosi di appartenere ad una piccola e grande squadra di contare indipendentemente dal ruolo o dallo stipendio percepito. Di poter dire in estate, al vicino di ombrellone: “io lavoro alla Standa, oppure all’Alfa Romeo, al Monte dei Paschi, oppure all’Alitalia” e essere certo di percepire nell’interlocutore un senso di malcelata invidia.
Quando questo non c’è più, quando l’appartenenza pesa, diventa ingombrante, quasi fastidiosa qualcosa si rompe definitivamente. E non saranno gli appelli di tre ministri o di due sindacalisti confederali o la mancanza di alternative a far passare quella sensazione di fine dei giochi, di solitudine e di abbandono. Anzi.
Ed è a questo punto che il referendum richiesto diventa altra cosa. Ed è per questo che parlare a sproposito di democrazia diretta non serve a nulla. Ad una platea disorientata, rabbiosa, schiantata, composta da furbi e fessi, da opportunisti e imbroglioni ma anche da tante persone per bene non puoi pretendere di apparecchiare la tavola come se il passato non contasse nulla, richiedere educazione, partecipazione, discernimento e scelte consapevoli.
Bentivogli sul Foglio parla di esperienze vissute. Potrei citare anch’io quante votazioni assembleari ho rimesso in discussione il giorno dopo con gli stessi sindacalisti in anni di onorata carriera, oppure quanti, una volta votato in un modo, hanno sconfessato il loro voto pochi istanti dopo.
Sono assolutamente convinto che subito dopo la votazione richiesta dal console Pilato molti sostenitori di Barabba si fossero già pentiti. Ma, in fondo, il loro voto, pur irrazionale, ha dato una direzione di marcia diversa alla storia. Credo che all’Alitalia, fatte le dovute proporzioni, sia successo lo stesso.
L’azienda, per come l’abbiamo conosciuta, era, ed è, già morta. Chi ha proposto il referendum lo sapeva benissimo. Forse per questo lo ha fatto. Nel caso dell’Unidal (Motta e Alemagna) dal primo piano con 2800 licenziamenti respinto sdegnosamente si passò ai 4000 e poi alla chiusura qualche anno dopo. Succede così quando la corda si spezza.
In Alitalia solo una politica mediocre o i demagoghi di turno possono assicurare che fra qualche anno ci sarà un’azienda più bella è più forte di prima.
Ci sarà solo, come per chi ha lavorato alla Standa, all’Alfa Romeo o a MPS, un ricordo di ciò che fu una grande azienda e di chi, consapevolmente o meno, ha lavorato per distruggerla.
Poi ci saranno altre aziende nell’alimentare, nella Grande Distribuzione, nell’industria automobilistica e, sarà così, nel trasporto aereo che, scegliendo di fiore in fiore, si avvantaggeranno di questo o di quell’asset ancora valido e redditizio di quelle imprese che seppero imporsi nel passato.
Ma questo è un altro film.