Enrico Marro, avanza, nel suo interessante articolo sul Corriere ( http://Bit.ly/2r5gMBb ) dubbi e perplessità sulla possibilità che Confindustria sia in condizione di sottoscrivere un accordo importante con le tre confederazioni sindacali.
Personalmente sono convinto che, per la prima volta, le perplessità siano tutte nell’altro campo. E cioè che CGIL, CISL e UIL si trovino di fronte, loro, e non Confindustria, alla difficoltà di sottoscrivere un accordo sui massimi sistemi ma sostanzialmente privo di contenuti concreti e equilibrati.
Eppure la strada sembrava in discesa. Dall’assemblea dei giovani industriali di Capri in poi dove l’indubbio fascino prodotto dal “Patto di Fabbrica” all’interno della cornice della “corresponsabilità” sembrava da un lato dare continuità alla volontà nata con Squinzi di contribuire a favorire un quadro unitario nel sindacato e quindi confermare, a Confindustria, la leadership in tema di lavoro, di primazia sulla rappresentanza e sui conseguenti modelli contrattuali.
A quelle affermazioni, però, non è seguito nulla di concreto. Anzi. I contratti del comparto industriale si sono rinnovati rapidamente pur senza una governance unitaria, le altre confederazioni datoriali hanno firmato i loro accordi quadro e, sulle diverse tematiche che hanno implicazioni giuslavoristiche (Contratti, Jobs Act, punti di crisi, industry 4.0, Voucher, ecc.), Confindustria, al contrario, non è sembrata mai in partita.
Personalmente non credo che questa sostanziale assenza possa essere spiegata addebitandola alle pur importanti “distrazioni” che influiscono sull’associazione degli industriali a cominciare dai problemi del loro quotidiano.
È la crisi di un mondo che non è più in grado di proporsi come punto di riferimento per tutti sul piano della nuova cultura del lavoro, del rapporto con i sindacati e dei suoi inevitabili cambiamenti.
Non lo è per la piccola e media impresa industriale dove il sindacato fatica a incidere, non lo è per gli altri settori economici sempre più autosufficienti, e rischia di non esserlo più neppure per la grande impresa manifatturiera che cerca di affrontare le sfide della globalizzazione cercando dentro di sé una coesione che prescinde dai modelli classici della rappresentanza.
In questa situazione molto complessa, alcune categorie industriali (metalmeccanici e chimici, ad esempio) hanno trovato convergenze interessanti in controtendenza. E le stanno sperimentando insieme alle rispettive associazioni datoriali.
La CGIL, da parte sua, sta cercando nuove risposte proponendo di concentrare diritti e tutele più sulla singola persona che sul luogo di lavoro, convinta, in questo modo, di contrastare l’emergere di una precarietà 4.0 che rischia, se non governata, di costituire la cifra vera di una parte del nuovo mondo del lavoro.
Esempi questi che dimostrano che un modello classico e governato come in passato è ormai andato in crisi. Spingere come fa Confindustria solo per una diversa “perimetrazione” della sua giurisdizione contrattuale allargando artificialmente al terziario innovativo la sua dimensione rappresentativa è un errore. Per le imprese ma anche per il sindacato.
Aggiungere contratti a contratti sullo stesso perimetro serve solo a chi li firma. Meno alle imprese e ai lavoratori. Ed è, in fondo, un segno di grande debolezza. Diverso sarebbe proporre un percorso innovativo, nelle singole categorie, che possa portare ad un significativo passo in avanti sulla condivisione delle problematiche in azienda. Quindi sul terreno vero del coinvolgimento e della partecipazione sull’inquadramento, sul welfare e sugli obiettivi di business.
Un contratto dei servizi innovativi di marca confindustriale non interesserebbe necessariamente tutte le aziende che operano già nel terziario e che applicano altri contratti nazionali ma rischia di introdurre una potenziale spaccatura laddove i due settori saranno costretti a convivere, magari nella stessa azienda indebolendo, di fatto, il ruolo delle parti e rallentando inevitabilmente il processo di decentramento contrattuale.
Nel terziario innovativo gestito da Confcommercio la contrattazione aziendale è praticamente inesistente. L’attuale modello prevede un’applicazione esclusiva dei minimi tabellari e una sostanziale libertà di movimento delle aziende stesse. Inoltre ogni tentativo di “invasione di campo” potrebbe provocare inevitabili forme di dumping con effetti tutt’altro che facili da governare.
Con la recente lettera ai sindacati il Presidente Boccia ha riaperto il tavolo. Nella recente assemblea confindustriale, però, non ha speso neanche una parola sull’argomento. Nei prossimi giorni vedremo se il silenzio era propedeutico ad una svolta vera o segnalava un impasse insuperabile. Personalmente mi auguro che si arrivi ad un accordo perché una Confindustria in panchina non fa bene al Paese. L’importante è che sia un accordo che possa essere considerato un vero punto di riferimento per l’evoluzione del sistema.