Una cosa è certa. Quest’anno (fortunatamente) nessuno prevede un autunno caldo. È già un notevole passo avanti rispetto alle previsioni, che, ogni estate ci annunciano sommovimenti sociali al rientro dalle ferie.
Eppure, nel mondo del lavoro, la situazione permane molto seria. La ripresa c’è seppur in misura inferiore agli altri Paesi. I consumi e l’occupazione, però, restano al palo. Così come gli investimenti.
Dagli 80 euro fino ad arrivare ai quasi venti miliardi spesi per spingere le imprese ad assumere i risultati sono stati abbastanza deludenti.
Dario Di Vico rilancia ( http://2tXQPEL )con una certa dose di buone ragioni l’esigenza di rimettere al centro la questione della produttività e delle relazioni industriali. Le imprese investono con il contagocce, assumono con grande parsimonia e, ai contratti a tutele crescenti, preferiscono i più tranquillizzanti contratti a tempo determinato.
Quello che forse si sottovaluta è che molti imprenditori sono fortemente preoccupati del futuro e quindi non investono nella misura che sarebbe necessaria ad innescare un circolo virtuoso.
La Politica e spesso anche una parte del mondo della rappresentanza, ragiona come se gli imprenditori non leggessero i giornali e si accontentassero delle rassicurazioni, degli incentivi o dei richiami al patriottismo industriale.
L’imprenditore oggi è solo. Molto più di ieri. Al di là di un nucleo importante di multinazionali tascabili o di industrie performanti che fanno sicuramente immagine ma che non fanno PIL duraturo, la stragrande maggioranza delle nostre imprese è sub fornitrice di qualche cosa o di qualcuno che sta altrove e che ne determina continuità produttiva, margini e possibilità di creare lavoro.
L’idea che quell’impresa che non ha alcuna voce in capitolo a quel livello della filiera possa prendersi integralmente i rischi in termini di forti investimenti aggiuntivi e creare di conseguenza occupazione, rischia di essere sempre più impraticabile. Anche se, in molti casi, può essere una scelta controproducente.
A mio parere due temi restano centrali. Innanzitutto come rimuovere tutti i fattori che ostacolano la competitività delle nostre imprese di cui la produttività è solo uno degli aspetti. E forse neanche il principale se i consumi non dovessero riprendere. Quindi i nodi di contesto (infrastrutture, burocrazia, giustizia).
In secondo luogo il tema della condivisione dei rischi. L’imprenditore, oggi, non ce la fa ad accollarsi integralmente i rischi di investimenti massicci che, a differenza del passato, possono rivelarsi un boomerang da cui rischia di non rialzarsi più.
Su questo terreno qualcosa è stato fatto ma la condivisione dei rischi (e delle opportunità) sarà, che lo si voglia o meno, l’elemento centrale dei prossimi anni alla base di quelle che dovranno essere le nuove relazioni industriali.
Le imprese italiane, salvo rarissimi casi, non occupano posizioni di leadership nelle filiere. Quindi i loro margini sono, e lo saranno sempre più, imposti dai contratti di filiera che di conseguenza determineranno la possibilità o meno di sottoscrivere con i sindacati contratti nazionali o aziendali che siano. Il vero punto di approdo del cosiddetto “Patto della fabbrica” e delle nuove relazioni industriali, se si vuole guardare lontano, sta tutto qui.
Questo è il nodo centrale. Il sindacato confederale deve decidere, prima o poi, se essere della partita o snobbarla e rischiare di subirne le conseguenze. Sulla struttura della contrattazione, sui suoi contenuti e quindi sulla sua stessa ragion d’essere nei luoghi di lavoro.
L’idea di poter svolgere la propria azione redistributiva e normativa in modo tradizionale in un mondo globalizzato e in una situazione di oggettiva fragilità come la nostra, riuscendo a tutelare lavoro, welfare e salario come nel 900 è veramente velleitaria.
Nella prima fase della globalizzazione il capitale poteva semplicemente spostarsi ovunque, delocalizzare, utilizzare il lavoro dove era più conveniente. Il cambiamento indotto dalla trasformazione digitale spingerà le aziende a disegnare ed implementare nuovi modelli di business che consentiranno forti riduzioni di costi e la destrutturazione del lavoro così come l’abbiamo conosciuto e regolamentato nel 900.
Questo processo spingerà, tutti gli attori del sistema, a ridisegnarsi un ruolo attivo o passivo ma è indubbio che i livelli di collaborazione, in azienda, sono destinati ad aumentare. Con o senza il sindacato.
Alla presentazione dell’ottimo libro “Rivoluzione metalmeccanica” di Giuseppe Sabella sulla storia e sul rinnovo del contratto dei metalmeccanici sia il Direttore Generale di Federmeccanica Stefano Franchi che Marco Bentivogli della FIM hanno condiviso con grande convinzione l’idea del “Rinnovamento” come elemento centrale del rinnovo del loro contratto.
E questo “Rinnovamento” è innanzitutto culturale. È un cambio di fase che è tanto più necessario e trasparente proprio laddove le macerie del vecchio modello sono più eviedenti. Gli altri contratti non hanno colto fino in fondo questa sfida (che non è solo per il sindacato). In quel settore la contrattazione aziendale assume un senso compiuto proprio perché spinge aziende e lavoratori, attraverso le loro rappresentanze, a cogliere questa esigenza di condivisione dei rischi e delle opportunità.
Ma se a loro è affidato questo compito, ai livelli confederali di imprese e sindacati dovrebbe essere affidato un altro compito, ancora più importante. Contribuire a rimuovere le cause che impediscono al nostro Sistema di essere competitivo.
E su questo mi limito sommessamente a suggerire la necessità che ci sia una convergenza che sappia andare oltre le esigenze di bottega di questa o di quella organizzazione (sindacale o datoriale) e che, al contrario, consenta una convergenza che sappia mettere al di sopra di ogni cosa gli interessi del Paese.