Il dibattito sollevato nella vicenda Tim/Cattaneo riporta in primo piano i limiti di una cultura che pretende di trovare risposte semplici a problemi complessi. Sostengono alcuni:”Cosa c’è di male di fronte ad una vicenda maturata nel rispetto della legge e della libertà di negoziazione tra le parti?”
Troppo o poco, sono, in questa logica, concetti astratti, fuorvianti financo indebiti. Nessuno ha minacciato nessuno quindi chi pensa di avere qualcosa da dire rischia di passare solo per moralista inconcludente.
Mario Sechi ha pubblicato una classifica interessante. Tanti soldi a molti top manager di lungo corso ma solo due di loro, Flavio Cattaneo (TIM) e Cesare Geronzi (Generali), in un tempo molto breve ed entrambi in settori non di loro competenza. Sarà un caso però anche questo dovrebbe far riflettere.
Parlare di risultati ottenuti è fuorviante. Questa idea che bisogna premiare un top manager ancora prima che entri in azienda (welcome bonus) e alla sua uscita (goodbye bonus…) oltre alle spettanze (seppur molto ben arrotondate) di legge e di contratto la trovo veramente ridicola.
Dicono però i sostenitori della tesi che, nel caso di Cattaneo, lo stesso avrebbe ottenuto risultati eccezionali in un tempo estremamente ridotto. Quindi è giusto premiarlo. Qui siamo, a mio parere, all’assurdo. Un top manager super pagato fa quello per cui è stato ingaggiato e questo suscita ammirazione.
Non ci si scandalizza mai del contrario. Così come non ci si scandalizza che un CDA di quel livello dimostri una così scarsa conoscenza dell’azienda da assegnare obiettivi raggiungibili in un tempo pressoché dimezzato rispetto al punto di partenza. Che strano Paese è il nostro…
Capisco la determinazione che spinge i top manager a tutelarsi dalla volubilità dei CDA ma qui siamo ben oltre ogni logica. Questa vicenda dimostra che un top manager di altissimo livello può pretendere tutele da far impallidire l’articolo 18, non garantire nulla in caso di fallimento con conseguenze sull’azienda stessa o di non raggiungimento degli obiettivi e siglare un patto di non concorrenza (pur non essendo un professionista di quel settore) che serve unicamente per impedirgli di utilizzare (alla faccia del comportamento) le informazioni acquisite, in una azienda concorrente.
E, tutto questo, non avrebbe nulla a che fare con l’etica? Ho conosciuto centinaia di dirigenti di medio e alto livello che hanno rappresentato e rappresentano la spina dorsale delle imprese italiane. Professionisti che si sono costruiti giorno per giorno la loro professionalità e hanno affrontato sfide complesse e che sottraggono tempo alla loro vita privata e agli affetti familiari ma che non hanno nulla a che fare con questa degenerazione del sistema.
Manager il cui obiettivo è fare bene, ingaggiare i propri collaboratori, condividerne le sfide quotidiane senza avere paracaduti nascosti o vie di uscita privilegiate. La stragrande maggioranza dei manager italiani non ha nulla a che vedere con queste eccezioni.
Ma, proprio perché sono tali, andrebbero inquadrate meglio. Leonardo Becchetti ci propone l’approccio di Etica sgr. Lo trovo condivisibile. A chi teme la fuga dei top manager nazionali verso lidi più tolleranti credo sia necessario sottolineare che, generalmente, a certi livelli si arriva anche in forza di impegnative carriere internazionali.
E che l’accettazione di situazioni rischiose per la propria carriera è nei fatti. Ed è comunque tutelabile senza alcuna esagerazione. Se osserviamo la lista proposta da Mario Sechi su LIST (da leggere!) possiamo osservare che molti tra i presenti appartengono ad una elite di fuori quota. Se volessimo quantificarla in termini assoluti non arriveremmo nemmeno all’1% della categoria.
I manager, quelli seri, sanno benissimo che il futuro prevederà sempre di più meccanismi di condivisione dei rischi di impresa. Altro che garanzie…
C’è, purtroppo, un residuo figlio di un tempo che sta volgendo al tramonto dove era solo l’imprenditore a doversi assumere i rischi. Non sarà più così. Ed è meglio che chi non lo ha ancora capito, se ne faccia una ragione.