L’invito a passare la festività del Ferragosto ovunque meno che in un centro commerciale testimonia una delle contraddizioni evidenti nelle quali si muove l’intero sindacato del terziario.
Una contraddizione che lo costringe a inutili reazioni pavloviane tipo quella di dichiarare una giornata di sciopero coincidente con la festività per consentire ai (sempre meno) lavoratori del settore che non vogliono lavorare quel giorno, di poterlo fare.
Nessun punto vendita è mai stato chiuso a seguito di queste singolari proteste e i carichi di lavoro (non essendo un lavoro vincolato) vengono inevitabilmente distribuiti sui colleghi che non aderiscono alla iniziativa. Quindi “zero problemi” per le aziende.
Nessuno però, tra i sindacati del settore, si è mai interrogato sul perché le persone riempiono i centri commerciali durante le festività, qual’è la loro provenienza sociale, l’eta prevalente o il loro reddito disponibile.
Oppure che la stragrande maggioranza dei frequentatori non compra assolutamente nulla o che i messaggi sindacali di opposizione al lavoro festivo vengono accolti o sottoscritti esclusivamente da chi non andrebbe mai in un centro commerciale in quei giorni.
L’ultimo manifesto unitario prodotto, rappresenta, da questo punto di vista, un capolavoro di ovvietà e di sottile umorismo nel suo claim: “Sei sicuro di voler passare il Ferragosto nella solita galleria commerciale?” Un esperto di marketing ci leggerebbe l’invito a cambiare galleria, sceglierne un’altra per permettere un adeguato riposo agli addetti più che valutare se sarebbe preferibile l”alternativa di Capalbio o Rimini…
L’assurdo è che anche Federdistribuzione rinuncia a leggere la realtà di cosa è oggi un centro commerciale limitandosi a rivendicarne l’apertura in nome delle liberalizzazioni ottenute. Così resta un dialogo tra sordi.
Vedere i centri commerciali come semplice luoghi di sfruttamento del lavoro o di consumo esasperato e non come luoghi di relazione, di incontro o di semplice passatempo ne pregiudica il futuro, ne rallenta l’evoluzione ad esempio, di un possibile vantaggio per i centri storici delle città.
Ne limita le potenzialità culturali e sociali che sono enormi. Soprattutto oggi che la crisi del settore e i segnali che giungono dagli Stati Uniti imporrebbero una capacità di riflessione e di visione che sappia andare oltre le beghe da cortile tipiche dei nostri dibattiti sul tema.
C’è un problema di consumi (qualità e quantità), di rapporto tra luoghi fisici e virtuali, di rapporto tra diversi canali di vendita, di ridisegno delle città sapendo che la dislocazione della distribuzione commerciale (grande e piccola) è fondamentale per contribuire a tenere insieme le comunità. Fino ad oggi si è voluto vedere il problema solo dal versante degli operatori economici o del lavoro degli addetti. Oppure dal punto di vista ideologico. Mai cercando di comprendere il contesto, la sua evoluzione e le necessità di un ruolo per tutti gli attori coinvolti.
Oggi la crisi lo impone. Nella Grande Distribuzione ci sono aziende che si stanno aprendo al contesto nel quale sono inserite. Lo stanno facendo con sperimentazioni, nuove idee e proposte. Manca una riflessione comune senza la quale continueremo ad assistere a battaglie di retroguardia sulle chiusure o sulle liberalizzazioni necessarie.
Per me resta incomprensibile il ritardo culturale dei sindacati di categoria che si ostinano stancamente a proclamare agitazioni fuori tempo per soddisfare pochi seguaci e a concordare gettoni di presenza o assunzioni aggiuntive per il lavoro festivo.
Così come quello delle associazioni di categoria che dovrebbero prendere atto che la guerra tra di loro è, di fatto, finita.
Nessuno ha perso ma, sia chiaro, nessuno ha vinto. Gli effetti collaterali sul sistema e sugli addetti sono sul tavolo ed evidenti a tutti. Si tratta solo di decidere se affrontarli in un quadro evolutivo e intelligente o subirne le conseguenze.