La contrattazione aziendale tra passato e futuro.

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Come Direttore Risorse Umane non ho mai conosciuto un CEO che non vivesse con fastidio un incontro con i sindacati a qualsiasi livello. Se proveniente da un altro Paese e con ancora una scarsa conoscenza della lingua italiana, alla curiosità iniziale di sentirsi protagonista di un evento per certi aspetti straordinario, subentrava sempre la difficoltà di comprendere la necessità di un confronto con tre o più “estranei” su argomenti ritenuti, a suo parere, di esclusiva competenza aziendale. Lo stesso per molti imprenditori. Soprattutto di PMI. Ovviamente non nei convegni o nei confronti pubblici dove ha sempre dominato il “politicamente corretto”.

Per i sindacalisti è generalmente diverso. Ogni incontro è fonte di confronto, apprendimento e di stimolo ad entrare nel merito delle problematiche aziendali.

Ho sempre pensato che, pur nel rispetto di un rito novecentesco che prevede tempi e modalità standardizzati, parlarsi, confrontarsi su posizioni diverse è un esercizio utile e importante.

Un’azienda è  anche il “clima” che vi si respira.

E ho sempre ritenuto un errore considerare inutile un confronto costruttivo con un interlocutore che rappresenta un punto di vista spesso sottaciuto dalla gerarchia al vertice aziendale. Un punto di vista che se compreso e gestito per tempo può evitare errori di gestione delle risorse e quindi inutili ricadute negative sul business.

È indubbio che, parlando di luoghi del confronto, la contrattazione aziendale sembra rappresentare l’uovo di Colombo. Impresa e lavoro si parlano e si confrontano laddove si crea la ricchezza. Cosa ci può essere di più razionale? Quindi un contratto nazionale leggero e poi ciascuno libero di costruire, in ogni realtà, un proprio vestito su misura. Facile a dirsi, difficile a farsi, nel nostro Paese. La storia e i pregiudizi, pesano.

Nel secolo scorso erano sostanzialmente i sindacati ad avere l’iniziativa. La contrattazione aziendale, situata temporalmente tra un contratto nazionale e l’altro tentava di migliorarne il contenuto o di anticiparne, su alcuni temi, il rinnovo successivo.

Ha funzionato fino a quando le aziende, incalzate dai problemi di contesto, hanno preso coscienza della propria capacità di replicare sullo stesso terreno e hanno cominciato a “pretendere” contropartite che, via via, hanno messo in discussione il ruolo stesso del sindacato interno o esterno come interlocutori negoziali.

E cosi le tradizionali piattaforme sindacali hanno lasciato campo libero a vere e proprie “contro piattaforme” aziendali di segno opposto che hanno trasformato la contrattazione aziendale da “integrativa” in “concessiva” o addirittura “restitutiva” fino a perdere di significato in rapporto al vecchio modello sindacale che l’aveva generata.

L’elemento interessante su cui riflettere oggi è proprio costituito dalla fine sostanziale di quel modello rivendicativo che si basava, di fatto, sulla possibile sovrapposizione di due livelli (nazionale e aziendale) considerandoli aggiuntivi e non integrativi o, addirittura, alternativi.

Nelle PMI la contrattazione era (ed è) quasi esclusivamente di tipo collettivo (nazionale e territoriale a macchia di leopardo). Le medio grandi, al contrario, non si sono certo fermate in attesa della definizione di un ipotetico nuovo modello occupando, autonomamente, lo spazio lasciato libero. Attraverso approcci specifici, culture interne, gestioni personalizzate hanno assunto, ingaggiato, promosso iniziative dotandosi di sofisticate politiche di sviluppo individuali e collettive.

Hanno imparato a fare da sole disintermediando con le proprie organizzazioni datoriali e favorendo, di fatto, un’analoga disintermediazione dei singoli lavoratori con i loro sindacati.

Se non si parte da qui non si riesce a comprendere perché le aziende (imprenditori e manager) non sono disponibili a ripristinare un confronto ravvicinato  pur dinnanzi ad una rappresentazione nuova e positiva che oggi viene proposta dai media o dagli esperti esterni all’impresa.

Nel breve non c’è molto da dire; sta dominando la legge del pendolo che premia l’iniziativa aziendale e accentua l’emarginazione del sindacato. Detto questo credo però che, per le imprese, non sia, comunque, una politica lungimirante.

Da questo la mia convinzione che, oggi,  il contratto nazionale debba comunque mantenere una sua importanza (pur derogabile in ogni suo aspetto da accordi specifici) almeno fino a quando un meccanismo di dissolvenza concordato tra le parti consenta equilibri e luoghi di confronto differenti o integrativi.

Temo però che lo stesso, in futuro, sarà difficile mantenerlo nei rigidi confini categoriali che lo hanno delimitato nel novecento (soprattutto nel comparto industriale). Sia per quanto riguarda il welfare contrattuale dove le masse critiche saranno sempre più importanti, sia sui minimi nazionali e le normative dove le differenze tra settori tenderanno a scomparire. Così come sulle politiche attive e quindi sulla formazione.

La partita vera, credo, si giocherà inevitabilmente sulla futura struttura del salario perché saranno le quote della retribuzione imputate alla professionalità individuale, al contributo, sempre individuale, al risultato aziendale e al welfare che faranno la differenza da cui potrà discendere una nuova impostazione. Ed è in quel contesto che i livelli e i luoghi della contrattazione potranno trovare materie e ruoli concreti.

Tra l’altro, Gigi Petteni, segretario confederale CISL, ha aperto, se ho compreso correttamente, ad un modello dove potrebbe trovare spazio anche questo aspetto, pur all’interno di regole da definire. È un passaggio importante perché segnala che qualcosa si stia muovendo forse più concretamente che in passato. Staremo a vedere.

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