“Siamo studenti, non siamo operai” è uno slogan pessimo e quindi ha fatto bene Marco Bentivogli a prenderne le distanze immediatamente dopo la conclusione delle manifestazioni contro l’alternanza scuola lavoro.
Dario Di Vico oggi sul Corriere sostiene, a ragione, che negli anni 70 molti giovani vedevano al contrario, proprio negli operai, un punto di riferimento della loro voglia di cambiamento.
Tanta acqua è passata sotto i ponti da allora e molti di quegli operai oggi hanno i loro nipoti che, partecipando e condividendo gli slogan di queste manifestazioni, ne rifiutano lo stile di vita, sentono lontano e ostile quel mondo che le generazioni precedenti hanno costruito, hanno un’idea del lavoro lontana anni luce dalla realtà.
Da un lato le difficoltà della scuola con le sue lentezze, i suoi luoghi comuni e le sue burocrazie; dall’altro il mondo del lavoro con i suoi valori, i suoi tempi e la sua selettività.
In mezzo le famiglie spesso prive di strumenti culturali in grado di capirne l’oggettiva incompatibilità. Entrambi mondi ancora estremamente impermeabili e scarsamente comunicanti.
Fortunatamente il buon senso di molti consente di costruire ponti efficaci che smentiscono, almeno in parte, il pessimismo dilagante che sottolinea sempre e solo ciò che non funziona.
Cosa si può fare per far capire, a chi ha oggi poco più di quindici anni, che saper lavare i piatti, zappare la terra, fare fotocopie, servire a tavola, allineare scatolette su di uno scaffale di supermercato è fondamentale, per il proprio futuro, quanto la teoria appresa a scuola?
E che tutto ciò che hanno imparato o apprenderanno sui banchi sarà solo una modesta parte di ciò che servirà loro per attraversare il mondo del lavoro per oltre cinquant’anni?
O che vedere da subito “l’erba dalla parte delle radici” è una fortuna che contribuirà a fornire loro quella necessaria capacità di vedere la realtà per quella che è e non per quella raccontata da cattivi maestri.
E che, quando entreranno nel mondo del lavoro, lo faranno avendo, forse, una minore confusione in testa su ciò che potrebbero essere in grado di fare?
Ha ragione Di Vico quando racconta che per la nostra generazione, più che al titolo di studio, mirava ad essere protagonista di una fase di grande cambiamento sociale.
Essere operaio, dichiararsi operaio allora era un must. Molti figli di borghesi impegnati nel travestimento sociale, faticavano a comprendere lo sguardo sardonico di chi osservava quei tentativi di appropriarsi di una condizione a loro estranea e dalla quale, gli operai, quelli veri, se avessero potuto, già da allora se ne sarebbero liberati volentieri.
Oggi quella condizione non esiste più. Oggi si può essere “tecnici 4.0, addetti alle linee di montaggio, facchini della logistica”. Ed essere comunque operai.
Uno dei compiti dell’alternanza è proprio quella di contribuire a capire i cambiamenti in atto, le interconnessioni, i destini che attendono i giovanissimi. Almeno in forma embrionale.
Ma anche quello di capire che nel mondo del lavoro ci si deve ambientare e quindi lo si può percorrere e lo si deve esplorare da qualsiasi punto di partenza offerto.
È il valore della fatica, del fare ciò che viene chiesto e non solo ciò che si vorrebbe, della relazione, dello scambio intergenerazionale, dell’alternanza tra lavori umili e lavori che fanno crescere.
È indossare una maglia, sentirla propria, sapere che il contributo dato, piccolo o grande che sia, sarà fondamentale al successo della squadra.
Il mondo del lavoro non si esaurisce in un’azienda o in una esperienza. Ma è come si vive e si affronta ogni occasione che viene offerta a fare la differenza. A quindici anni come a cinquanta e oltre.
E questo, oggi, pochi lo spiegano.