“Uniti si vince”. Uno slogan sessantottino sempre valido. Esprime una verità inoppugnabile e cioè che solo insieme si può affrontare e superare un ostacolo, una difficoltà superiore alle forze di una singola persona.
Lo stesso dibattito in corso sull’alternanza ha rilanciato anch’esso il tema della collaborazione, della necessità di una visione comune, tra mondo della scuola e mondo aziendale.
Purtroppo ha messo la sordina ad un altro problema altrettanto importante: il ruolo e il contributo che i giovani possono portare nelle nostre aziende. Soprattutto quei giovani, e sono tanti, che vogliono darsi da fare.
Il messaggio che sembra voler essere veicolato alle imprese è al Paese è chiaro: prendete i giovani perché costano meno degli altri. Non perché potrebbero essere in grado di aiutarvi a fare la differenza.
Due visioni, purtroppo, si scontrano e rischiano di elidersi a vicenda. Da un lato si sostiene che i giovani hanno un’idea del lavoro sbagliata trasmessa loro da genitori e professori. Un’idea sostanzialmente superata del contesto nel quale il lavoro oggi si trova, si mantiene e si sviluppa.
Un’idea più legata a ciò che è stato il lavoro per le generazioni precedenti rispetto a quello che potrà essere per loro. Certo un lavoro che sarà sempre più diverso, tecnologico, meno vincolato, più creativo, ricco di motivazioni ma sempre più difficile da coniugare a schemi novecenteschi di welfare, diritti e dinamiche competitive.
In altri termini, mentre nel secolo che abbiamo alle spalle le potenzialità e le aspirazioni del singolo erano comunque inserite in una robusta e sana cornice collettiva, oggi, e ancora di più domani, quella cornice rischia di sbriciolarsi spingendo la persona alla solitudine, alla continua competizione con altri come lui sparsi nel mondo e senza alcuna conquista né individuale né collettiva che possa essere data per acquisita.
Regole, tutele e welfare che non reggono più così come sono state pensate in ogni singolo Paese ma che vanno comunque reinterpretate e riscritte con parole e contenuti nuovi che però, oggi, non sono ancora presenti nei vocabolari dei corpi sociali. E, questo ritardo, innanzitutto culturale, spinge inevitabilmente i più fragili, a guardare indietro con nostalgia.
Dall’altro lato chi già lavora in azienda, cresciuto in questo difficile contesto di transizione, ne ha subìto le asperità, ne ha pagato in prima persona la solitudine nella quale si è dovuto gestire le proprie ripartenze, ha amici e colleghi che, pur preparati e disponibili a rimettersi in discussione, si trovano in gravi difficoltà.
La stessa prospettiva certa di restare più a lungo in un’azienda che spesso non ti vuole perché ormai “vecchio e costoso” spinge molti a resistere e a non accettare la sfida del “nuovo che avanza”.
È un corto circuito difficile da interrompere. Eppure l’ingresso di giovani in azienda resta sempre un fatto importante nella vita di un’impresa. Segna la volontà di guardare avanti, di credere nel futuro, di investire, di formarsi e di cambiare. Porta un’aria nuova e consente di trasmettere esperienza ma anche di ricevere stimoli e approcci diversi.
Mi capita spesso, al CFMT, di incontrare manager che credono profondamente nei giovani come attori protagonisti indispensabili del cambiamento delle loro aziende. Molti di loro, anche tramite Manageritalia, ci hanno convinto a progettare qualcosa che li rendesse protagonisti di questa volontà. La stessa Confcommercio, sempre più sollecitata dalle imprese del terziario che vivono il cambiamento come una missione quotidiana ci ha invitato a sperimentare.
Big (Business intergenerational game) è nato da queste sollecitazioni. Un business game pensato e costruito proprio puntando alla collaborazione intergenerazionale in azienda. Se non altro a porre il problema sul tavolo all’attenzione di tutti.
Non ci interessava proporre un gioco tradizionale dove avrebbe vinto la squadra dei più bravi. Ce ne sono già troppi. Ci interessava un “gioco” dove avrebbero dovuto vincere i più bravi a condizione che collaborassero. Ovviamente tra generazioni differenti.
Ci interessava valorizzare le differenti capacità e competenze che possono mettere in campo manager e giovani provenienti dalle università. L’adesione alla nostra idea, di giovani e manager, ci ha stupito.
Oltre 700 iscritti di cui il 63% uomini e il 46% donne, provenienti da tutta Italia e anche dall’estero, per un totale di 86 squadre; quasi 200 manager (senior) coinvolti e oltre 500 fra neo-laureati e laureandi (junior), con un’età media di 23 anni per questi ultimi e di 48 per i senior.
Le squadre si confronteranno simulando la gestione annuale di un’azienda del settore dei giocattoli. Il business game lo abbiamo progettato coinvolgendo Assogiocattoli, gli amici dell’Università Bicocca e con il supporto di alcune delle principali aziende del settore. Consiste in quattro giocate settimanali che si svolgeranno durante il mese di novembre. Vedremo come andrà a finire.
Oggi mi interessa riflettere sull’idea in sé e sulla partecipazione. Abbiamo squadre che si sono proposte direttamente dalle aziende, altre dalle università, altre ancora che abbiamo formato noi cercando di mettere insieme territori e competenze.
I giovani hanno risposto alla grande così come i manager confermando la volontà di stare insieme, di mettersi in gioco e di mostrare, se ce ne fosse bisogno, il volto positivo della collaborazione. Di dare, così, un messaggio alle aziende e alle università che la collaborazione non solo è possibile ma è nelle corde della nuova generazione. E che questo può rappresentare un interesse comune.
“Ponti e non muri”, uno slogan che vale per tutti. Il Paese migliore è quello che trova nella collaborazione, nel rispetto del lavoro degli altri, nell’umiltà di rimettersi in gioco, le ragioni profonde dello stare insieme.
Come CFMT possiamo solo contribuire a dare un segnale. Ci sono però tanti giovani che vogliono essere della partita. Per crescere e per far crescere le aziende. E ci sono altrettanti manager disponibili a mettersi in gioco. Creiamo, insieme, le condizioni perché ciò possa avvenire.