Qualcosa di interessante e forse poco osservato si sta muovendo intorno al mondo della rappresentanza. Nel mondo agroindustriale nasce “Filiera Italia”, una nuova realtà associativa che vede per la prima volta il mondo agricolo, i mezzi tecnici per l’agricoltura, la tecnologia avanzata per la trasformazione alimentare e l’industria agroalimentare italiana dei diversi settori, insieme. Manca la distribuzione alimentare e la logistica ma è certamente un primo passo significativo.
Nel nostro Paese l’idea di proporre un modello di rappresentanza che affronti e ricomponga gli interessi presenti in una determinata filiera è una novità stimolante. Sarà interessante seguirne l’evoluzione.
D’altra parte i modelli tradizionali costruiti nel 900 risentono di appartenenze culturali, politiche e settoriali che mostrano alcuni limiti relativi al perimetro stesso della rappresentanza rivendicata. Va sottolineato in premessa che i corpi intermedi, e questo è indubbio, mantengono un loro peso organizzativo e politico significativo e un buon rapporto con i propri associati tutt’ora in grado di contrastare le pressioni disintermediatrici di chi vorrebbe semplificare frettolosamente importanti dinamiche sociali.
E questo elemento, di per sé positivo, rende complessi i cambiamenti sia per le organizzazioni datoriali che sindacali. La questione, però, non è questa. Se cadono i confini tradizionali delle attività economiche perché primario, secondario e terziario si ibridano grazie al mutamento del contesto socio-economico complessivo e a ciò che l’innovazione non solo tecnologica mette loro a disposizione, è probabilmente insufficiente attardarsi in una logica puramente conservativa.
La difficoltà di arrivare ad una definizione del perimetro e della conseguente rappresentatività delle singole organizzazioni passa anche dalla capacità o meno di innovare culture e abitudini mentre si affrontano questi problemi.
Non è un caso che Confindustria cerchi di proporsi come nuovo interprete e rappresentante di una certa quota di terziario dopo aver preso atto che il proprio mondo tradizionale di riferimento sta cambiando in profondità. Come spiegare altrimenti la “corte serrata” e insistente nei confronti della Grande Distribuzione in corso da alcuni mesi e le pressioni sul sindacato confederale per accreditarsi come interlocutore nel terziario?
Così come il comparto dell’artigianato che si sente oggi pienamente legittimato a giocare a tutto campo. D’altra parte è indubbio, e l’esperienza di Rete Imprese Italia lo dimostra, che le aggregazioni tradizionali basate sulla ricerca di un comune denominatore di “classe” vanno in crisi davanti alle rispettive logiche organizzative.
Nel suo ultimo libro (il Paese dei disuguali) Dario Di Vico affronta il tema prendendolo di petto con la consueta ruvidezza. Però lui stesso si rende perfettamente conto che ciò che poteva avere una sua validità strategica in un altro momento storico, oggi rischia di perdere buona parte della sua spinta propulsiva a causa del cambiamento del contesto.
E questo, a mio parere, vale anche per le organizzazioni dei lavoratori dove, una semplice convergenza unitaria, pur importante sul piano politico, non produrrebbe di per sé un risultato innovativo sull’iniziativa sindacale necessaria in questo contesto.
E non è solo un problema di mancanza di generosità o di banali convenienze, pur presenti, dei diversi soggetti in campo. È che la difesa degli interessi legittimi di una o più categorie da sole o convergenti su di un progetto unitario si scontra con un contesto che non consente più di esprimerla in modalità tradizionali.
Con una impostazione di quel tipo si possono anche condividere proteste. Difficilmente si è in grado di condividere proposte.
Nelle filiere, al contrario, pur mantenendo le dinamiche organizzative tradizionali si potrebbero sperimentare e ricomporre convenienze, interessi e nuovi modelli di collaborazione.
Ad esempio tra banche e imprese, tra consumatori e produttori, tra lavoratori e datori di lavoro. Si aprirebbe una nuova partita tutta da giocare avendo in mente gli interessi complessivi del Paese. Le attuali organizzazioni di rappresentanza sono strutturate più per competere tra di loro che per collaborare e non sono strutturate per accompagnare i rispettivi associati nella complessità di un mondo ormai globalizzato.
Gli stessi servizi proposti vengono messi sempre più in discussione da una concorrenza esterna ai sistemi stessi sempre più agguerrita. E, contemporaneamente, i corpi intermedi hanno sempre più difficoltà a difenderne gli interessi specifici perché la funzione redistributiva dello Stato è in crisi, le poche risorse disponibili sono assorbite dalle grandi voci della spesa pubblica nazionale e le capacità di pressione nei confronti della Politica per allargare una fetta di una torta sempre più piccola diminuiscono sempre più.
E questo senza mettere in conto che il baricentro decisionale si è spostato altrove dove le multinazionali, vecchie e nuove, hanno più rapidità e capacità di movimento e di pressione rispetto al mondo della rappresentanza che risente, anche a livelli transnazionali, delle stesse difficoltà che lo contraddistingue nelle differenti realtà nazionali.
Oggi il confine passa tra le imprese che riescono ad interpretare, nel loro business, l’innovazione intercettandone opportunità offerte e dimensione dei nuovi mercati potenziali e le altre che sono condannate ad essere sempre più marginalizzate.
Alle organizzazioni di rappresentanza, se lo sapranno interpretare in modo nuovo, spetta il compito di accompagnare questo processo, di condividerlo con i propri associati, di fornire loro strumenti e punti di riferimento concreti, studiando anche ammortizzatori e forme di supporto nelle transizioni o nelle difficoltà.
Ma anche di non lasciare, dietro di sé, un mondo di macerie e di rancore sociale che diventerebbe facile preda di movimenti antisistema.
Da qui, proporre nuovi modelli di finanziamento per le imprese, costruire forme di welfare importanti e condivisi, ben oltre i confini di comparto, magari indirizzando le risorse finanziarie create in modo meno conservativo, proporre una formazione legata allo sviluppo imprenditoriale e del lavoro, integrare i nuovi lavoratori e imprenditori provenienti dal resto del mondo sempre più presenti sul territorio, rappresentano parte del percorso da intraprendere.
Per queste ragioni un processo di certificazione e quindi di razionalizzazione delle rappresentatività è comunque utile e il CNEL potrebbe essere il luogo ideale per realizzarlo, però non risolve i temi della sovrapposizione e della inevitabile competizione (che rischia di essere comunque a somma zero) tra sigle differenti. Bisognerebbe saper guardare oltre gli interessi immediati. Cosa più facile a dirsi che a farsi.
Enzo Bianchi ci ricorda che ”Sovente costatiamo che il mondo non cambia mai tuttavia continuiamo a credere e sperare che val la pena di tentare e ritentare di cambiarlo”. Io credo che questo dovrebbe essere lo spirito che anima gli innovatori. Di ieri, di oggi e di domani.