Ho conosciuto l’autore proprio poco prima che decidesse di entrare in fabbrica. Io avevo 18 anni, lui sei più di me. L’ho reincontrato, molti anni dopo su Facebook ormai in pensione.
In quegli anni di grande effervescenza sociale e politica ci vedevamo praticamente ogni sera, sabato compreso. Rino Riva vendeva libri per gli Editori Riuniti e, insieme ad altri giovani, stava maturando l’idea, proprio in quel periodo, di andare a lavorare in fabbrica.
Rileggerlo dopo tanti anni da quella scelta è stata una esperienza piacevole. Il suo ultimo scritto “Se i muri potessero raccontare” non è un libro carico di nostalgia su quello che è stato un periodo irripetibile nella storia del movimento operaio.
È una storia di operai, persone singole alle quali la stagione delle conquiste di nuovi diritti e di maggiori tutele hanno consentito una vita migliore. Il contesto economico e sociale restano volutamente sullo sfondo. Così come le responsabilità sulla fine di quella grande fabbrica.
Sono protagonisti concreti i problemi extra lavorativi degli individui, la fatica, le difficoltà quotidiane, le sconfitte e le vittorie che incidono pesantemente sulla qualità della vita e sul futuro delle persone. Le 150 ore, le pause, i ritmi di lavoro. Il rapporto tra la contrattazione e la vita vera che ne segna le pagine.
E le persone sono sempre tratteggiate a tinte forti. È chiaro, lui sta “senza se e senza ma” da quella parte e quindi ne coglie il lato migliore, scava nei loro sentimenti, ne propone situazioni e umiliazioni ricevute come fossero oggetto di supplizi imposti da cui non riuscivano a liberarsene e non sempre l’iniziativa sindacale, pur importante, è stata in grado di attenuare.
C’è anche molta Fiom nel tono del racconto. Molta di più di quella che probabilmente c’era in quella fabbrica. C’è però anche molto pessimismo. Forse, nell’autore, c’è la consapevolezza che il declino vissuto da protagonista non è né semplicemente imputabile a “tradimenti dei vertici sindacali” né a evidenti errori di management, che pure ci sono stati.
È la descrizione di un mondo che è cambiato troppo in fretta per essere compreso e accettato ma anche per poter essere contrastato efficacemente. Per certi versi mi ha ricordato un libro che avevo letto proprio negli anni 70: “Proletari senza rivoluzione” dello storico Renzo del Carria.
I muri che si sbriciolano, crollano o vengono fatti a pezzi per fare spazio a nuovi insediamenti, come metafora di un futuro subìto. Ma il pessimismo dell’autore è sempre bilanciato dalla luce che le persone semplici emanano se osservate e ascoltate con attenzione.
Ed è questa la vera ricchezza del libro. La qualità delle persone protagoniste dei racconti. Ed è per questo che resta un libro da leggere.
All’amico Rino Riva che conclude senza alcuna concessione positiva al futuro mi permetto solo di regalare un passo del libro “Lo Stato” che Aldo Moro scrisse nel 1943 “Probabilmente, malgrado tutto, l’evoluzione storica, di cui noi saremo stati determinatori, non soddisferà le nostre ideali esigenze; la splendida promessa, che sembra contenuta nell’intrinseca forza e bellezza di quegli ideali, non sarà mantenuta.
Ciò vuol dire che gli uomini dovranno pur sempre restare di fronte al diritto e allo Stato in una posizione di più o meno acuto pessimismo. E il loro dolore non sarà mai pienamente confortato […]. Il dolore dell’uomo che trova di continuo ogni cosa più piccola di quanto vorrebbe, la cui vita è tanto diversa dall’ideale vagheggiato nel sogno. […]
Forse il destino dell’uomo non è di realizzare pienamente la giustizia, ma di avere perpetuamente della giustizia fame e sete. Ma è sempre un grande destino”.