I corpi intermedi sotto i riflettori…

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Nel mondo del lavoro le contraddizioni sono più evidenti. Le ultime vicende che coinvolgono il sindacalismo confederale con la divaricazione sulle pensioni  ma anche su singole vicende che lo vedono unitariamente in campo, segnalano la difficoltà ad interpretare una realtà che è profondamente cambiata.

Mentre la CGIL insiste nel collocare gli avvenimenti in uno schema le cui chiavi di lettura sono sostanzialmente le stesse da sempre, CISL e UIL ne hanno forse compreso l’insufficiente lettura ma la strumentazione di cui dispongono è rimasta sostanzialmente la stessa.

Resta, in queste organizzazioni, la ricerca di linguaggi, proposte, luoghi di confronto e interlocuzioni nuove da parte di alcune categorie industriali, a cominciare dai metalmeccanici, che, per svilupparsi, abbisognano anch’esse di un salto di qualità delle rispettive controparti.

La scarsissima adesione interna allo sciopero indetto sia a Ikea che a Amazon rappresentano seri campanelli di allarme. Personalmente sono rimasto sorpreso della reazione di alcuni studiosi della materia che hanno sopravvalutato l’effetto mediatico delle vicende e sottovalutato la scarsa rilevanza del sindacato nei rispettivi luoghi di lavoro.

È come la querelle sul lavoro festivo nei centri commerciali o negli outlet. Chi non li frequenta o non li apprezza ne osteggia le aperture nel disinteresse generale. E magari inneggia al boicottaggio provocandone però un effetto opposto. . Gli stessi sindacati di settore sono costretti a fare buon viso a cattivo gioco dichiarandosi contrari nei convegni e nelle dichiarazioni ufficiali ma poi firmando accordi di liberalizzazione pressoché totale nelle singole aziende.

La stessa difficoltà è speculare anche nelle organizzazioni datoriali. Se FCA ha deciso di uscire da Federmeccanica per potersi muovere più liberamente, in altri settori l’appartenenza ad una Federazione o ad una Confederazione non implica più alcunché in termini di rispetto delle regole del gioco. Il rifiuto della contrattazione aziendale accompagnata da quasi 900 contratti nazionali testimoniano la volontà di ritagliarsi spazi che escludono un confronto anche positivo con il sindacato.

Il caso del contratto nazionale invocato da Federdistribuzione è emblematico. Alle aziende, soprattutto multinazionali, non interessa alcun contratto nazionale specifico. Interessa non impegnare risorse per imposizione esterna, il più a lungo possibile. In questo modo possono risolversi unilateralmente i problemi in casa propria.

Federdistribuzione, da parte sua, insegue il sogno di un contratto di comparto che ne giustifichi l’operato in tema di lavoro. Così le due esigenze procedono parallelamente nel tempo senza necessariamente incontrarsi. Il sindacato del settore è lì in mezzo. Stritolato da un dumping salariale infinito di cui in parte è causa e in parte è vittima. È il segno dei tempi.

E la situazione è destinata solo a peggiorare. Un sistema si sta decomponendo senza averne uno nuovo da implementare. La firma dei grandi contratti dell’industria e del terziario aveva fatto pensare ad una prospettiva nuova.Così come gli ultimi accordi interconfederali. In realtà tutto rischia di essere ridotto a carta straccia se non c’è un rilancio di una strategia collaborativa seria.

La stragrande maggioranza delle aziende non si fida per nulla del sindacato. Altro che contrattazione aziendale! D’altra parte, quest’ultimo, appena si trova di fronte un problema, si muove come fossimo nel secolo scorso senza averne però più la stessa capacità di mobilitazione. È il cane che si morde la coda.

Io non credo si debba continuare così.

Nel nostro Paese c’è, ad esempio,  una indubbia questione salariale. È chiaro alle imprese ed è chiaro ai sindacati. C’è spazio per una riflessione e quindi per una azione comune o no? O aspettiamo i prossimi 80 euri?

Il nuovo che avanza (algoritmo, formazione dei lavoratori, politiche attive, nuovi lavori, tipologie di lavoro, ecc.) è materia esclusiva di convegni, di commissioni parlamentari e quant’altro o materia di approfondimento tecnico congiunto propedeutico ai nuovi contratti di lavoro?

Esiste in questo Paese un’alternativa al semplice impiego della forza oggi tutta sbilanciata a favore delle imprese? Non ci vuole molto a capire che un sistema di regole generali dettate nei contratti e nelle leggi viene ormai sostituito sempre più da usi e consuetudini aziendali che interpretano liberamente i sistemi di cui sopra.

La propensione a chiederne conto nelle sedi preposte è inesistente e quindi le singole culture aziendali plasmano i collaboratori su modelli organizzativi, di coinvolgimento e disciplinari specifici.

Quando qualcosa in questo modello si incrina, esce all’esterno un comportamento assolutamente deprecabile nel contesto sociale ma legittimo in quello interno perché costruito intorno a regole che escludono atteggiamenti individuali non compatibili; organigrammi e organici sono all’osso e quindi tutti i problemi organizzativi generati da un singolo si scaricano inevitabilmente sui colleghi. Da lì nasce un circolo vizioso difficile da interrompere.

Tentare poi di coinvolgere mediaticamente l’immagine dell’azienda sul mercato in una campagna denigratoria in stile anglosassone nel nostro Paese è un autogol gigantesco proprio nei confronti dei lavoratori che si vedono minacciati nel loro posto di lavoro. E così il solco con il sindacato rischia di diventare incolmabile.

Se però dovesse venire meno la convinzione che le regole vanno rispettate, che i contratti si devono applicare e che le persone hanno una dignità di cittadinanza che va oltre i comportamenti pretesi dalla singola azienda, contribuiremmo solo a segare il ramo dove tutti siamo seduti.

E questo, forse, dovrebbe farci riflettere.

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