Giovani e tute blu

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Giovani o meno giovani, nessuno pensa al lavoro come maledizione. Sia chi ce l’ha, sia chi lo cerca ma perfino chi se lo immagina, vista la sua giovane età, trova più facile indicare ciò che non vorrebbe trovarsi a fare in futuro.

La pessima performance dei ragazzi in tuta e catene che protestano contro l’alternanza indica esattamente questo. Il mondo degli adulti a questa rappresentazione ha reagito compatto, condannandola. È giusto. Il lavoro, qualsiasi lavoro, non può essere “offeso” o ridotto ad esempio negativo. Soprattutto un lavoro onesto, dignitoso e ancora carico di significato come quello dell’operaio.

Certo se si fossero agghindati da precari, rider, stagisti infiniti, muti ricercatori o facchini della logistica il risultato sarebbe stato ben diverso. Avrebbero trovato la solidarietà del mondo intero. Hanno avuto una pessima idea.

Per parte della mia generazione era il bancario, il terrore di un futuro in catene. La certezza di una omologazione da rifiutare. L’operaio era la classe, l’uguaglianza, la rivoluzione, il cambiamento. La tuta era una divisa da indossare con orgoglio. E questo mentre i nostri genitori cercavano di spingerci allo studio per evitare di indossarla.

Certo anche allora c’erano i coetanei borghesi che la indossavano come fossimo in una perenne festa a tema. Però loro sapevano benissimo che potevano smettere di indossarla in qualsiasi momento. Molti altri, no.

Sapevano che quella tuta sarebbe stata una seconda pelle. Che, una volta indossata, restava anche se si fosse cambiato mestiere, che avrebbe plasmato, formato, cucito una identità sociale. Puoi fare lo studente, il giornalista, il sindacalista, il dirigente aziendale, il politico, il professore ma la tua origine, o quella di chi ti ha educato, ti metterà sempre a disposizione un punto di osservazione dove scorciatoie, vie di fuga privilegiate, caricature della realtà non esistono.

Esiste il confronto, la ricerca di soluzioni praticabili, le sperimentazioni. L’alternanza scuola lavoro, purtroppo, rischia di schiantarsi proprio nelle sue rappresentazioni idealizzate.

Il mondo delle imprese non era pronto ad un obbligo formale. Lo ha subìto, lo ha gestito come poteva gestirlo. C’è chi ha colto lo spirito della legge e si è mosso di conseguenza, e chi lo vive come un impiccio da cui liberarsene in fretta. Ci sono territori più attrezzati e altri sprovvisti di quel minimo di contesto necessario.

Poi ci sono sicuramente anche gli imprenditori scorretti. Ha senso però per i giovani battersi contro l’alternanza usando questi pretesti? Certo che no. La piattaforma del movimento degli studenti è stata scritta da chi non ha mai visto un’azienda. Qualcuno glielo dovrebbe spiegare. Però alcuni contenuti sono nello spirito della legge e andrebbero valorizzati e presi in considerazione.

L’alternanza è una opportunità importante. Per molti giovani ha rappresentato uno sguardo concreto sul loro futuro, per molti altri, forse, a quello sguardo, non seguirà un percorso coerente. Per questo andrebbe spiegato loro che l’azienda ha molti ruoli e offre opportunità diverse.

E in un mondo del lavoro nel quale ci si dovrà restare per decenni, partenze e ripartenze su professionalità e lavori molto diversi tra di loro saranno all’ordine del giorno. È vero che l’alternanza deve avere attinenza con il percorso di studi ma qualcuno che spieghi agli studenti che questo non varrà per tutti e per sempre, deve pur esserci. Altrimenti si creano solo pericoloso illusioni di carriere che non esistono più.

E questo compito spetta anche alla scuola. Soprattutto laddove “elemosina” risposte comunque dalle imprese ma non istruisce gli studenti lasciandoli in balìa degli eventi. Ai ragazzi che hanno indossato la tuta per marcare la distanza tra ciò che sperano e ciò che temono li aspetti non credo servano prediche.

Serve forse spiegare loro, come ha fatto Marco Bentivogli, che non è dalla figura dell’operaio che devono prendere le distanze o farne una caricatura negativa. Né l’operaio fordista della vecchia generazione che ha contribuito a costruire i perimetri sociali del mondo del lavoro e della convivenza civile né quello moderno che sta cercando una identità tra nuovi diritti da riscrivere, nuovi lavori da tutelare e nuove opportunità, proprio per chi verrà dopo.

E questo lavoro non può che essere che affidato alle rappresentanze sindacali e datoriali e non lasciato alle petizioni di principio o alle piazze.

L’esperimento di BIG (il business game intergenerazionale promosso da CFMT) ci ha consegnato un mondo del management e degli studenti ben pronto ad una collaborazione positiva e utile ad entrambi. Certo era solo uno spaccato di cinquecento giovani, 50 università e 170 manager di molte PMI che non rappresentavano in modo scientifico l’universo di riferimento.

Però erano distribuiti in tutta italia, nella stragrande maggioranza dei casi non si conoscevano tra di loro ma hanno saputo conoscersi, apprezzarsi, alternarsi ruoli e comunicando, anche a notevole distanza fisica, in funzione di un obiettivo. Basti solo segnalare che gli stage proposti dalle imprese sono aumentati e di molto, dopo il gioco visto il livello dei ragazzi che vi hanno partecipato.

L’alternanza può e deve assumere diverse forme pur, ovviamente, rispettando lo spirito della legge. Se parlassimo di più di ciò che funziona nel rapporto tra i due mondi e meno di ciò che non funziona innescheremmo un circolo virtuoso da cui ne trarrebbero giovamento soprattutto i più giovani non costringendoli così a individuare nemici o epiloghi tragici, in catene e in tute blu, del loro futuro.

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