Quasi sempre l’interesse dei media o degli esperti si concentra sui livelli di disoccupazione. A volte scontrandosi su percentuali insignificanti in più o in meno, quasi sempre sorvolando sulla qualità e sulle modalità del lavoro proposto.
Alle ingiustizie e alle prevaricazioni in voga fino ad oltre la metà del secolo scorso si è sostituito un complesso di regole che ha retto fino a quando ha potuto reggere. Leggi e contrattazione ne hanno determinato retribuzioni e confini.
La cultura fordista, imprenditoriale, sindacale, giuridica, da sempre concentrate sul luogo della produzione e sulla sua dimensione collettiva hanno costruito un impianto di regole e convenzioni che pur adeguate e rese flessibili nelle intenzioni dei riformatori che si sono via via succeduti, non sono riuscite a spostare l’attenzione sul lavoratore come individuo da tutelare in sé sia nel singolo rapporto di lavoro che rispetto al mercato.
È così anziché riflettere su un nuovo welfare si discute su come rendere fruibile ai giovani (forse) tra vent’anni quello che abbiamo costruito nel 900. Oppure si cerca di replicare all’infinito una tipologia di lavoro decisamente in declino sprecando risorse economiche che potrebbero essere concentrate su come il singolo lavoratore può accedere al lavoro, mantenerlo o muoversi tra un lavoro e l’altro.
Ma tutto questo, purtroppo, non avviene a bocce ferme. Il sistema delle imprese si muove continuamente e cerca un suo adattamento al contesto che cambia pur rispettando leggi e regole ma interpretandole, sempre più, a modo proprio.
Se, ad esempio, un intero comparto come quello della Grande Distribuzione può decidere di non rinnovare alcun contratto (fingendo una generica disponibilità) per quattro anni senza conseguenze è inutile lamentarsi così come il tema delle false cooperative che nascono come funghi proprio nelle regioni dove la cooperazione si è affermata come strumento di partecipazione e di emancipazione del lavoro.
Capisco la visibilità che porta ai sindacati la vicenda Amazon (che comunque applica un contratto nazionale in un settore dove altri applicano ben poco) ma, anche in quel caso, qualcuno crede veramente che sia possibile riproporre modelli e atteggiamenti sindacali del passato per modificarne la cultura o l’impostazione organizzativa?
Dario Di Vico oggi sul Corriere ( http://Bit.ly/2D6LuOT ) ci invita, ancora una volta, a riflettere su questi temi. Già nel suo libro “Nel Paese dei disuguali” affronta il tema mettendo i piedi nel piatto. Le culture, il welfare, la composizione sociale i flussi migratori, i sistemi contrattuali e di rappresentanza del novecento hanno maglie troppo larghe per comprendere e rappresentare un mondo che cambia.
Aggiungo che sarebbe sbagliato pensare che questo sia un problema solo italiano. In Germania i cosiddetti “lavoratori poveri” quelli sotto la soglia dei 980 euro al mese sono passati dal 18 al 22%. Il salario minimo è stato innalzato nel 2017 a 8,84 euro all’ora e, nonostante questo abbiamo 4.7 milioni di tedeschi sotto i 450 euro/mese trasformando così una parte dei disoccupati in “lavoratori bisognosi”.
È un problema generale che dovrebbe far riflettere tutte le forze sociali ed economiche. Esistono diritti o tutele che prescindono dal luogo di lavoro o dal contratto di riferimento e che dovrebbero essere in capo al lavoratore? Io penso di sì. Esiste in Italia un problema di reddito e di lavoro? Io penso di sì.
Esistono, in certe situazioni e settori problemi di precarietà, lavoro nero e quant’altro che nulla hanno a che vedere con la necessaria flessibilità indispensabile laddove è il servizio, materiale o immateriale, il prodotto di un’impresa? Io penso di sì. Esiste un problema di costo del lavoro che non può essere caricato solo sulle imprese o solo sui lavoratori. Io penso di sì.
Così come penso che sia un errore pensare che questi problemi siano risolvibili solo attraverso conflitti localizzati o attraverso la solidarietà a poco prezzo, magari sotto Natale.
Occorre saper andare oltre le strumentalizzazioni che aumentano la visibilità degli indignati di turno ma non risolvono i problemi.
La vicenda Castelfrigo è profondamente diversa da altre che vengono pur esibite come sintomatiche di un contesto globalizzato. I grandi allevamenti di suini, nel nostro Paese, sono chiusi da decenni spostandosi nel nord Europa per scelte legate alle politiche comunitarie.
Perso quel tram ci è rimasto solo il lavoro di trasformazione dove il costo si somma alla materia prima, al trasporto, alla lavorazione e alla distribuzione rendendo comprimibile praticamente solo il costo del lavoro. Da qui il ricorso alle finte cooperative. O al nero.
È una vicenda emblematica proprio perché laddove non c’è spinta all’innovazione, alla qualità come elementi distintivi, al servizio offerto o alla ricerca di nuovi mercati c’è declino, lavoro sempre più povero e sfruttamento sicuro.
C’è la specificità di quella nuova classe operaia che ormai sfugge a leggi e contratti e che Di Vico descrive così minuziosamente. Tre rappresentanti di etnie emblematiche che, allo stesso modo, vengono sfruttate qui come in tutto il continente. E il fatto che la loro lotta estrema si ponga l’obiettivo, pur di non restare disoccupati, di poter continuare ad essere sfruttati come prima, perché senza alternative, dovrebbe far riflettere.
Nel 900 quel lavoro era ritenuto, nel comparto delle carni, più qualificato di altri. Alla Galbani, alla Invernizzi, alla Vismara o alla Negroni chi lavorava le carni rappresentava la spina dorsale del sindacato degli alimentaristi. Oggi è sempre più difficile trovare italiani disposti a farlo.
Ed è proprio la trasformazione del lavoro, la sua evoluzione ma anche la sua involuzione che ha spiazzato chi si occupa di questa materia. Oggi i contratti di lavoro, indipendentemente dal livello di negoziazione che si vorrebbe scegliere o dai contenuti, si scontrano sempre più con le dinamiche di costo determinate tra imprese, settori, subforniture e commesse che influiscono sul costo o sul servizio proposto all’intermediario o al consumatore finale che non sembrano affatto disposti ad accollarseli.
Ed è da qui, da questo dilemma importante che, lo si voglia o meno, occorrerà ripartire…