Gli industriali di Cuneo hanno avuto il pregio di rimettere al centro del dibattito un tema importante. Non è certo un caso che intorno alla loro lettera ai giovani e alle loro famiglie si è scatenato un dibattito sulla finalità della scuola, le attitudini e i sogni dei ragazzi che la frequentano e le apprensioni dei genitori sul loro futuro.
Nel dibattito sono riemersi i problemi già evidenziati da quello sull’alternanza scuola lavoro. Uno scontro inutile, dannoso e inconcludente. Da una parte chi sostiene, pur con differenti ragioni, che non è compito della scuola creare futuri lavoratori.
Dall’altra chi, preoccupato per il mismatch di competenze teme di non trovare risorse adeguate o vede rischi futuri di disoccupazione per i propri figli.
Non tutti i genitori sono uguali, così come non tutti i giovani. Per molti la situazione economica è un ghetto da cui tentare di uscire o, almeno, poter sperare di farlo. Il lavoro “possibile” rappresenta una via d’uscita. Significa sostegno al reddito familiare, maggiore autonomia, realizzazione di alcuni dei propri obiettivi. Il prezzo da pagare, per un giovane, è rappresentato dalla necessità di spostare nel tempo i propri sogni professionali magari rischiando di non realizzarli.
Su circa cento ragazzi che si iscrivono alle elementari meno di trenta si laureano. Ma uno studio tradizionale esclusivamente finalizzato ad un titolo che si trasforma in realizzazione di un sogno solo per pochi è ancora utile nelle forme e nei modi conosciuti? Come si governa la dispersione scolastica, l’abbandono e l’analfabetizzazione di ritorno?
Personalmente credo che se la formazione dovrà accompagnare la persona durante tutta la sua vita professionale non è tanto importante il punto di ingresso nel lavoro a fare la differenza ma lo diventerà sempre di più la qualità e l’accessibilità del percorso formativo a disposizione, la convinzione di poter esercitare un diritto e di averne la consapevolezza.
Il problema quindi non è spaventare i genitori pronti a suggerire un percorso scolastico più breve ai propri figli, finalizzato ad un lavoro immediato o, da parte delle imprese, necessario a colmare il mismatch di competenze.
Semmai è come rimettere in moto l’ascensore sociale, come rivoluzionare un sistema di apprendimento che deve essere continuo, come spingere le persone alla formazione permanente e come coinvolgere le aziende e la scuola in questo processo.
Massimo Gramellini ci ricorda, sul Corriere, che la scuola non è nata per formare lavoratori ma per formare esseri umani. È vero.
Però questi esseri umani devono sapere che, mai come oggi, il loro futuro dipende da ciò che decideranno di fare o da ciò a cui rinunceranno più o meno inconsapevolmente per pigrizia, ignoranza o mancanza di consapevolezza personale.
Così come tutti noi dobbiamo sapere che non ci può essere una selezione economica o sociale a monte che impedisca al merito di affermarsi indipendentemente dal punto di partenza di ciascuno.
Per questo la scuola dovrebbe innanzitutto insegnare ad imparare e a mantenere viva questa determinazione.
Per le generazioni che hanno studiato nel 900 l’obiettivo era la conquista di un posto di lavoro in sé e poterlo (o saperlo) mantenere fino alla pensione all’interno di un processo di possibile crescita continua.
Per quelle del nuovo secolo l’obiettivo sarà, una volta entrati nel mondo del lavoro, poterci restare ben oltre una singola esperienza lavorativa iniziale. Non sarà più la tipologia del contratto a garantire diritti e tutele ma la capacità di interagire con il mercato del lavoro.
Per questo l’istruzione di base, la formazione permanente e la capacità di muoversi in un contesto competitivo complesso faranno sempre più la differenza.
Inseguire i propri sogni, insistere sulle proprie aspirazioni, credere nelle proprie capacità di realizzazione non riguarderà più solo la parte iniziale della propria vita ma l’intero percorso professionale e non solo. E questo è un dato profondamente diverso dal passato.
Quindi è giusto aprire una discussione a tutto campo sull’istruzione, sulla formazione continua e sul rapporto con il lavoro. Senza pensare che fare l’operaio a vent’anni nella trasformazione digitale sia come farlo negli anni 50 del secolo scorso o che ci debba essere contrapposizione tra pensa che la scuola e il lavoro debbano rimanere mondi lontani. Soprattutto che le aspirazioni e i desideri siano confinati in una età specifica come in passato…
Per questi motivi va apprezzata quella lettera. Mi sarei, però, aspettato qualcosa di più dal dibattito che ha provocato.
Ragionare per categorie, cicli di vita, istruzione e formazione in modo tradizionale consegnerà anche le prossime generazioni al “fai da te” inconcludente di chi le ha immediatamente precedute. E questo sarebbe un errore imperdonabile.