Quando Renzi annunciò la strategia degli 80 euro e del Jobs Act qualche autorevole opinionista pensò che la disintermediazione segnasse un punto definitivo a favore della Politica nel suo tentativo di mettere in un angolo i corpi sociali.
Ricordo che solo Dario Di Vico, in quei mesi ad un convegno della Fondazione Welfare Ambrosiano, tentò una lettura meno ultimativa e dirompente tra una disintermediazione necessaria e finalizzata ad interrompere il potere di veto di rallentamento delle decisioni causato dalla concertazione rispetto ad un attacco in grande stile temuto dai sindacati.
Renzi pur forte di un orientamento presente allora tra l’opinione pubblica sottovalutò comunque il ruolo e il radicamento delle rappresentanze sociali. L’attacco fu però, di fatto, più formale che sostanziale.
Evitò di incontrarli, li trattò con superficialità (a volte con arroganza) li pensò deboli e decise, ingenuamente, che avrebbe potuto batterli proprio sul terreno del lavoro. A mio parere è stata anche questa scelta a contribuire a mettere se stesso in un angolo.
In un Paese disorientato e confuso, impaurito dalla crisi, diviso tra generazioni e territori dove il lavoro era ed è il tema principale in ogni famiglia la narrazione scelta dal Governo e dal Presidente del Consiglio, si è dimostrata suicida.
Se a questo aggiungiamo il senso di insicurezza, di paura e di solitudine che attraversano le nostre comunità e che il Governo e i Partiti che lo hanno sostenuto hanno abbondantemente sottovalutato, gli effetti sul piano politico ed elettorale, erano scontati.
Adesso sembra tocchi ad altri soggetti entrare a gamba tesa su temi tipici del mondo del lavoro e delle relazioni industriali. Da un lato la Lega Salviniana con la sua proposta di abolizione della Fornero, dall’altro i 5 stelle con il loro il reddito di cittadinanza.
Due temi che, (solo) in parte, hanno indubbiamente convinto l’elettorato a scegliere i rispettivi proponenti. Due temi che, se portati fino in fondo, al di là delle ripercussioni economiche rischiano di incidere pesantemente sulle scelte sia delle imprese che dei sindacati.
È ovviamente legittimo che la politica, forte dei risultati elettorali, imponga i suoi temi. Soprattutto se largamente condivisi da una parte importante della pubblica opinione.
Ma con quale possibilità di successo?
Jobs Act, sgravi e 80 euro, alla prova dei fatti, non sono stati percepiti come una svolta dall’opinione pubblica ma neanche rivendicati e difesi oltre una certa misura dalle stesse imprese. I corpi intermedi ne hanno incassato i benefici ma hanno ribadito nei contratti e negli accordi il loro ruolo e le loro priorità.
Abolizione della Fornero e reddito di cittadinanza sono, per il momento, ancora slogan da campagna elettorale. Nei prossimi mesi si vedrà quanto potrà essere tradotto in pratica, chi ne verrà beneficiato, cosa dovrà essere sacrificato, le eventuali ripercussioni economiche e, infine, come reagiranno i corpi intermedi. Il recente accordo con Confindustria e quelli prima raggiunti con Confcommercio e le altre organizzazioni testimoniano la volontà delle organizzazioni di rappresentanza di difendere il proprio perimetro di iniziativa.
A questo andrebbero aggiunti la necessità di intervenire sul mercato del lavoro e sulle code delle ristrutturazioni. Penso all’Alitalia, all’Ilva e a tutte quelle imprese, grandi e piccole che escono dal mercato o si riorganizzano proprio per cambiare e attrezzarsi al meglio per la competizione.
Ci saranno ulteriori problemi di costi di accompagnamento alla pensione ma anche di reimpiego. Le politiche attive sono, ovviamente, una necessità ineludibile che però rischiano di entrare in conflitto con lo stesso reddito di cittadinanza pur nelle sue declinazioni più light.
Soprattutto è certo il disallineamento tra il gap di aspettative e l’età anagrafica tra chi viene messo fuori dalle aziende e le esigenze, la cultura e le volontà del sistema delle imprese che farebbe pensare più alla necessità di rafforzare strumenti di protezione per chi perde il lavoro che di reddito comunque inteso per chi non lo trova.
È lo stesso problema, oggi rovesciato, degli sgravi a pioggia per le assunzioni dei giovani. Senza alcuna finalizzazione specifica si sono rivelati uno spreco. E la presenza di questo gap, costerà, in termini di sostegno pubblico, riducendo inevitabilmente gli spazi di manovra della Politica su altre priorità.
Così come sindacati e imprese hanno lasciato ai Governi recenti, di fatto defilandosi, onori e oneri su provvedimenti che alla fine si sono dimostrati un boomerang per chi li ha lanciati, così sarà per nuove proposte che rischiano di raggiungere una platea, forse sufficiente per la propaganda politica ma insufficiente per un Paese spaccato socialmente in due, a più velocità, non ancora uscito dalla crisi, condizionato dal suo debito pubblico e dalle regole di un’Europa che si appresta, nel 2019, ad una campagna elettorale attraversata da profonde paure, egoismi nazionali e disorientamenti sul ruolo.
Si profila quindi, se un Governo nascerà, sotto il segno degli obiettivi dei vincitori della recente campagna elettorale, una evidente e prevedibile invasione di campo con l’obiettivo di consolidare il rapporto con i propri elettori e, di conseguenza, marginalizzare il ruolo dei corpi sociali. Se così sarà la storia rischierà di ripetersi.
Come con Renzi ma, forse, ancora più di Renzi ritornerà in primo piano la disintermediazione. Però in una situazione più complessa socialmente.
Alle organizzazioni di rappresentanza la scelta tra una intesa forte tra di loro sulla scia di quanto condiviso negli accordi confederali su una piattaforma comune che offra al Paese una visione positiva ma netta di ciò che si può fare nell’interesse generale oppure accettare l’idea di essere indicati, prima o poi, come ripiegati su se stessi, inadatti al cambiamento e quindi a rischio emarginazione.
A mio modesto parere non c’è spazio per tutti e per tutto per la nuova politica. Ma la conquista o la perdita di questo spazio segnerà, che lo si voglia o meno anche la qualità della nostra democrazia.