Mi ha fatto riflettere e stimolato l’accostamento di Giuseppe Caprotti, figlio del fondatore di Esselunga, il 19 marzo sul suo blog (http://www.giuseppecaprotti.it) tra l’agire di Amazon e la Galbani della tentata vendita nel secolo scorso.
Quella che oggi si chiama “profilazione” tramite big data o, potenzialmente con i dati delle fidelity card tempo fa, in Italia, avveniva tra il piazzista dell’azienda lattiero casearia e il negoziante. Il consegnatario (il piazzista, appunto) conosceva le abitudini di acquisto dei clienti di quella zona costruito sulle richieste storiche dell’esercente.
Per questo motivo, con migliaia di camioncini che giravano l’Italia, l’azienda era così in grado di anticipare le decisioni di acquisto dei clienti consegnando la merce addirittura prima che il negoziante di turno pensasse di procedere al riordino e anticipando in questo modo la concorrenza.
Galbani sapeva sempre cosa volevano i consumatori quindi cosa ordinare agli stabilimenti di produzione e come far circolare i freschi attraverso una logistica efficace e trasporti efficienti. Avveniristico, per quegli anni fu anche la costruzione del centro logistico di Ospedaletto Lodigiano (guarda caso a due passi da Piacenza con 20 anni di anticipo su Amazon).
Era un sistema di profilazione ante litteram. Non a caso il termine professionale che indicava la persona addetta alla consegna era “piazzista” cioè colui che piazza la merce decisa a monte dall’azienda (e dal cliente). La differenza stava nella qualità della relazione che questa figura instaurava con il negoziante. Una relazione duratura, trasparente, da partner.
In quegli anni da DHR della Galbani andavo spesso nei vari depositi a fare il “giro” nelle diverse zone, insieme ai piazzisti. Era, a suo modo, una macchina unica e perfetta. Stabilimenti efficienti, logistica del fresco accuratissima, comunicazione efficace utilizzando anche la forza di migliaia di camioncini che giravano l’Italia. Prodotto sempre fresco e disponibile, relazione con il cliente positiva.
Amazon sta forse cercando di costruire un modello analogo, ovviamente attualizzato grazie alla evoluzione tecnologica e logistica suoi evidenti punti di forza e senza i rischi della produzione. Credo abbia ragione Giuseppe Caprotti.
Il negoziante, da parte sua, si credeva il vero protagonista. In realtà il rapporto era tra Galbani e il cliente finale. Il negozio era solo un luogo convenzionale di incontro perché la consegna, allora, non poteva avvenire altrove. Lo stesso slogan “Galbani vuol dire fiducia” contribuiva a creare quel clima di azienda familiare, pervasiva e positiva.
Quel modello è pero rimasto unico, inarrivabile, poi diventato sempre più costoso e quindi finito in crisi proprio con l’arrivo della grande distribuzione e con la riduzione del piccolo dettaglio alimentare.
La GDO, da parte sua, ha sempre individuato proprio nel piccolo esercente tradizionale un avversario facile da sconfiggere e, a monte, una catena di fornitori, tutto sommato altrettanto facili da sottomettere con aggressive politiche di acquisto.
Oggi, però, la vera domanda è se, quel luogo di incontro tra prodotto e consumatore, continuerà ad essere il negozio tradizionale (grande o piccolo che sia) o lo diventerà, nel tempo, sempre più il divano di casa, h24.
Nell’immaginario di Jeff Besoz, probabilmente il negozio fisico dovrà essere solo un luogo dove il prodotto si materializza per essere visto o valutato. Non necessariamente comprato. O se comprato non secondo canoni tradizionali. Il resto è E-commerce, quindi logistica.
Amazon forse spera di superare in larga parte l’attuale modello di intermediazione commerciale quindi la necessità di stoccare il prodotto in una ulteriore location fisica intermedia tra il magazzino logistico e il consumatore.
Forse lo terrà nei suoi magazzini o, addirittura spingerà, in futuro, il produttore a fornirgli solo le quantità necessarie just in time. E con una forza di negoziazione sui prezzi straripante magari costringendo così gli stessi produttori (vedi Apple e altri) a reagire aprendo, loro stessi, punti vendita diretti.
La crescita prevista solo negli USA dell’E-commerce dal 2015 al 2020 è prevista del 56% contro il 2% del mercato tradizionale. Amazon muove già oggi, direttamente o indirettamente, centinaia di milioni di prodotti. Sul nofood la battaglia sta facendo vittime illustri. Toy“R”us negli USA è solo l’ultima in ordine di tempo. Azienda messo in crisi, prima, della logica di Amazon e poi oggetto di interesse della stessa per le location dove sperimentare nuovi modelli di rapporto con il consumatore.
Sul fresco, al contrario, la partita è ancora aperta. Non è un caso l’acquisto di Whole Foods. Fondamentale per consentire ad Amazon di capire meglio il business complesso del fresco e del freschissimo e attrezzarsi di conseguenza.
Sembra però che la storia si ripeta. Solo che, questa volta, non sono i piccoli ma è la GDO che rischia di trasformarsi in preda facile. E non è un problema solo italiano.
Oggi la Grande Distribuzione è un settore che appare troppo ripiegato su se stesso, ciascuno chiuso nella propria azienda, con i suoi metri cubi da valorizzare e con i suoi costi. Soprattutto con scarse capacità di lobby, di diminuite capacità di coinvolgimento sui suoi problemi, e con una immagine (sbagliata) di produttore di lavoro povero.
Non che manchino i risultati positivi, le sperimentazioni interessanti e imprenditori o manager veramente impegnati ad interrogarsi sia in Italia che in Europa ma la strada dell’innovazione è tutt’altro che imboccata con decisione.
La conclusione di Giuseppe Caprotti però non è affatto entusiasmante. “L’unica arma che alcuni distributori pensano di usare è la riduzione dello spazio dei propri punti di vendita: grandi catene che operano con superstore stanno pensando di riconvertire parte degli spazi, in essere o già pianificati per i nuovi punti di vendita in apertura, nell’e-commerce. Al contrario di attaccare il mercato, differenziando la propria offerta (digitalizzandola), continuano imperterriti a proporre i soliti volantini (su prezzi più o meno bassi), trincerandosi e difendendosi, dopo aver speso cifre astronomiche per uno sviluppo senza senso”.
Sarà pure un giudizio di parte ma non può non far riflettere chi ha a cuore il futuro del settore.
Una risposta a “Amazon vuol dire fiducia?”