Lavoro. Quando l’eccezione diventa la regola…

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Il caso Foodora e la sua decisione di lasciare il nostro Paese riporta in primo piano i rider e rilancia finalmente il loro punto di vista. Fino ad oggi non è stato così. Loro malgrado sono stati trasformati nel simbolo della precarietà ben più di chi lavora in nero o di chi viene sfruttato nei campi dell’agro nocerino.

Ritenuti uno dei più importanti problemi  dal neo Ministro del Lavoro Luigi di Maio, protagonisti di scioperi mediatici che non ci sono mai stati, hanno addirittura  spinto alcune istituzioni a livello locale ad inventarsi tavoli e soluzioni specifiche. Nessuna categoria professionale ha mai avuto lo stesso trattamento.

Le ragioni sono da ricercare negli ingredienti diventati subito indigesti all’opinione pubblica che rendono questa storia diversa da molte altre ben più gravi. Innanzitutto i rider come novelli Davide contro la spregevole multinazionale sfruttatrice Golia. Molti, da  genitori, ci hanno visto il destino dei propri figli impegnati nella ricerca di un lavoro che non trovano e che, trovato, non soddisfa le loro aspettative. Infine la paura del futuro. L’algoritmo, il grande fratello con le sue app che distribuisce e toglie il lavoro a suo piacimento.

A parte qualche giovane rider un po’ più politicizzato degli altri spinto dai sindacati desiderosi di entrare nella vicenda,  il grosso di loro ha assistito con una certa riluttanza a questo eccessivo protagonismo, non richiesto. La ragione è molto semplice. Nella stragrande maggioranza dei casi questi “lavoretti” sono utili sia agli studenti universitari per mettere in tasca qualcosa, sia a chi, in attesa di un lavoro, si mette a disposizione per periodi limitati e compatibili con le proprie aspettative. Ma questo approccio non rendeva mediaticamente interessante il tema. 

Foodora dunque se ne va. In rete si leggono tante reazioni superficiali di chi ha in testa il lavoro del 900 e applaude all’addio di questa multinazionale come prova che quel modello di business non funziona perché si limiterebbe a scaricare sul lavoro il rischio di impresa.

Ovviamente non è così. Le ragioni sono più complesse. Semmai l’indeterminatezza del nostro contesto provocato dal dibattito sulla natura del rapporto di lavoro può aver contribuito, seppur in minima parte, alla decisione peraltro preannunciata a suo tempo dal responsabile italiano della multinazionale.

Alcune multinazionali in diversi settori sono arrivate in passato  nel nostro Paese con progetti di espansione e se ne sono andate dopo pochi anni ritornandoci con maggiore esperienza negli anni successivi. Sarà probabilmente così anche in questo caso.

Altre imprese, dello stesso comparto, che credono nelle potenzialità di questa attività, hanno scelto di associarsi, di dotarsi di una visione comune e di affrontare le problematiche dei rider all’interno di una compatibilità con il loro modello di business. 

Nel frattempo si comincia a riflettere sui modelli adottati in altri Paesi che affidano ai rider stessi un protagonismo differente attraverso piattaforme cooperative e lavorando su figure di lavoratore autonomo di nuova generazione. Finalmente la nebbia si dirada. 

L’articolo del corriere (http://bit.ly/2OeYrM5) racconta bene il disagio dei rider e le  preoccupazioni a fronte di una vicenda che non è stata provocata da loro ma di cui rischiano di esserne travolti perché, altri,  troppo “esperti della materia” hanno voluto metterci mano con idee incompatibili con quel tipo di attività.

Chi nel dibattito che si è alimentato ha segnalato che l’impresa ha semplicemente spostato il rischio sul lavoratore ha solo preso atto, forse inconsapevolmente, di una tendenza che è destinata ad accentuarsi nei prossimi anni. E non solo in questo comparto economico.

Così come sarà inevitabile che altri soggetti, a monte,  a valle e all’interno dell’impresa stessa (banche, fornitori, manager, dipendenti, clienti, ecc.) dovranno condividerne i rischi (e le opportunità) perché gli investimenti necessari per sostenere determinati business e la conseguente competizione interna e internazionale non saranno assumibili da una singola impresa e saranno tali da richiedere convergenze e condivisioni come mai in passato.

A meno di rassegnarsi all’idea che nelle filiere internazionali vincerà il più forte a scapito di quei lavoratori e di quei Paesi che non sapranno adeguarsi. Per queste ragioni occorrerebbe affrontare con spirito nuovo le problematiche del lavoro e dell’impresa.

Pensare che ogni soggetto economico trasformato in sub fornitore di qualche altro  della filiera si possa assicurare i propri vantaggi a scapito del soggetto più debole renderebbe il lavoro e la sua remunerazione sempre più un di cui di decisioni altrui stravolgendo regole e contratti. Inaccettabile, ovviamente, ma difficile da contrastare. 

Oggi noi viviamo una fase di transizione tra ciò che ci ha garantito il 900 in termini di diritti, tutele, welfare  e lavoro ma ci muoviamo verso un territorio dove le nuove regole non sono ancora scritte. Pensiamo di considerare eccezioni ciò che devia dal contesto noto e che sia facile riportarle nell’alveo dei nostri principi.

Finché sarà possibile sarà così, vedi Jobs Act e Decreto Dignità.

Però ricordo che quando comparvero le prime automobili le lobby dei guidatori di carrozza imposero regole severe e adatte ai guidatori di carrozze per bloccarne l’espansione. Abbiamo visto come è andata a finire. 

Tweet about this on TwitterShare on FacebookShare on LinkedIn

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *