Aldo Cazzullo sul Corriere (http://bit.ly/2OuWzze) affronta il tema della inopportunità delle chiusure domenicali dal punto di vista del lavoro, della sua importanza, della sua qualità e dei suoi cambiamenti e di ciò che dovrebbe essere all’ordine del giorno per un vero Governo del cambiamento.
“Negli ultimi quarant’anni l’automazione ha distrutto il lavoro operaio; oggi la rivoluzione digitale sta distruggendo il lavoro dei bancari, degli assicurativi, degli agenti di viaggio. Per restare al commercio, intere categorie rischiano di essere messe fuori mercato dal web: grossisti, rappresentanti, trasportatori, commessi sono sempre più spesso sostituiti da un clic. Tesori di esperienze e competenze potrebbero in poco tempo essere spazzati via. Un disastro sociale che, però, richiede un sforzo di inventiva, di diversificazione, insomma di lavoro; altro che serrande abbassate la domenica.”
E’ l’altra angolatura del problema. Per questo sbaglia approccio Marco Beretta, segretario della Filcams Cgil di Milano quando attacca: ”Con ogni evidenza le liberalizzazioni di orari e giorni di apertura non hanno portato più occupazione. Anzi. le aziende hanno licenziato ed è peggiorata la condizione generale dei lavoratori.” Una frase forte che, per certi versi, descrive un punto di osservazione della crisi e di come ha colpito nel territorio milanese. Ma non c’entra nulla con le liberalizzazioni.
Innanzitutto non considera la natura e l’impatto che la crisi hanno avuto sulle diverse insegne. Poche sono cresciute a parità di perimetro. Alcune si sono ritirate dal Paese, altre sono passate di mano, altre sono fallite. Altre ancora hanno ricalibrato offerta e formati. Infine sono cresciuti i discount. Alcune insegne sono rimaste prigioniere delle loro strategie e dei loro vincoli organizzativi.
Il decreto Monti del 2012 ha concesso indubbiamente una concreta opportunità ai consumatori ma, di fatto, solo una importante boccata di ossigeno in un momento pesante alle imprese e ai fatturati della GDO alimentare. I consumatori però hanno distribuito diversamente i loro acquisti e sono cambiati i modelli di consumo. La domenica è diventata un giorno in più a disposizione. Per alcune insegne è uno dei due giorni più importanti della settimana.
Se passiamo ai Centri commerciali dobbiamo prendere atto che, in questi anni, si sono attrezzati sempre di più per diversificare l’offerta accogliendo clienti e famiglie andando ben oltre le proposte di acquisto in sé. Il negozio alimentare ha perso la sua centralità a vantaggio di ciò che la struttura riesce ad offrire complessivamente.
Ma, nonostante questo, la crisi ha colpito duro. La GDO si è trovata da una parte i fornitori e i vincoli dei costi di gestione e del lavoro. Dall’altra non ha avuto più a disposizione la leva dei prezzi. Quindi o ha perso fatturato o ha perso margini. Alcune poi si sono avvitate in una spirale infinita.
I tagli e le ristrutturazioni, a quel punto, sono diventati inevitabili.
Il sindacato è stato messo in un angolo, i contratti aziendali prima sono stati confinati ai sopravvissuti delle vecchie generazioni di dipendenti poi superati definitivamente. Le aziende si sono riorganizzate, hanno assunto giovani, introdotto dosi massicce di formazione per migliorare la qualità del servizio. Lo stesso contratto nazionale è stato messo in discussione.
In questi anni di crisi le aziende, per resistere, hanno sfruttato tutte le opportunità collegate anche alle aperture concentrandosi sui loro punti forti. Ovviamente non tutte le imprese sono uguali. E non tutte hanno reagito allo stesso modo. Così come i comparti della GDO.
C’è chi ha reagito innovando e chi sfruttando i propri vantaggi competitivi. L’estensione degli orari, le domeniche e le festività hanno però dato origine ad un modello diverso sia nell’offerta che nella domanda che non può più essere paragonato alla situazione degli altri Paesi.
Ritornare indietro significherebbe ritarare tutto il sistema sul modello precedente. E quindi il danno occupazionale si estenderebbe ben oltre alla grande distribuzione che oggi, in un centro commerciale aperto la domenica, rischia di attivare solo una minoranza degli addetti impegnati.
In Italia oggi ci sono circa 1200 centri commerciali e outlet. Impiegano circa 550.000 persone, comprendono circa 34.000 punti di vendita e fatturano circa 51 miliardi di euro al netto di IVA. Secondo i dati forniti dal Consiglio Nazionale dei Centri Commerciali, questi ultimi contano su di un’affluenza di un miliardo e 800 milioni di visite/anno. Sarebbe un disastro e non solo per i consumatori.
A questo si aggiunge l’aggressività delle offerte dei giganti della rete che oggi non hanno ancora coinvolto il food come il non food ma lo faranno presto. E’ quindi un settore complessivamente in profonda trasformazione che andrebbe accompagnato in questa sfida e non penalizzato ulteriormente. Per queste ragioni le polemiche sindacali sulla possibile distribuzione dei fatturati piuttosto che sull’occupazione rischiano di essere fuori bersaglio e trasformarsi in un boomerang negativo. Proprio per l’occupazione e il lavoro.
Massimo Bonini segretario della CGIL milanese lo ha capito benissimo quando afferma: ”una regolamentazione del lavoro la domenica e nei festivi è necessaria ma questo non può significare tenere chiuso tutto e sempre.”
Così come altrettanto correttamente, dopo l’intervento rassicurante del Presidente di Confcommercio Carlo Sangalli sul tema, chiosa il Presidente di Federdistribuzione Claudio Gradara: ”Meno giornate di apertura implicano meno vendite e meno consumi. Quindi meno occupazione e meno investimenti”.
Per questo occorre cambiare toni e atteggiamenti e farlo velocemente.
Ha ragione Mario Gasbarrino AD di Unes quando, preoccupato per le chiusure annunciate, individua la soluzione in un diverso atteggiamento delle imprese su welfare aziendale e salario. Un negoziato serio dovrebbe ripartire da lì non certo da inutili pregiudizi. E anche l’apertura di Stéphane Coum AD di Carrefour sulla necessità di chiudere velocemente il contratto nazionale può essere letto in questa direzione. E’, questa indubbiamente una dichiarazione di peso da parte di un’azienda multinazionale determinante nelle dinamiche decisionali di Federdistribuzione.
Tra l’altro definire questa vicenda ormai protrattasi oltre ad ogni logica sarebbe fondamentale anche per il Sindacato di categoria che, altrimenti, si troverebbe bloccato indefinitamente quando, nel 2019, proporrà il rinnovo del CCNL con Confcommercio che, giustamente, non ha nessuna intenzione di aprire un confronto prima che si sia chiuso definitivamente il contenzioso che ha causato un inaccettabile situazione di dumping sui costi con Federdistribuzione e con le Coop.
C’è quindi spazio per costruire una soluzione equilibrata e positiva per le imprese e per i lavoratori. Basterebbe solo volerlo.