La vicenda che ha coinvolto il padre del Ministro Di Maio avrebbe dovuto aprire un dibattito vero sul tema del lavoro nero in Italia e nel Sud in particolare. Purtroppo è rimasto confinato alla lotta politica in corso tra maggioranza e opposizione. E quindi si è trasformata in un’inutile contrapposizione sui rispettivi padri.
Non si è colto un tema che, al contrario, è centrale se si vuole parlare di lavoro, fisco, previdenza e dumping tra imprese grandi e piccole. Girarsi dall’altra parte serve a poco. Così come negare l’evidenza. In molti casi per una piccola impresa o per una famiglia l’alternativa non è se assumere una persona in nero o in regola. L’alternativa è tra assumere in nero o non assumere. Purtroppo.
Una badante per una famiglia di ceto medio basso spesso è una necessità irrinunciabile ma anche un problema. Basterebbe farsi raccontare dagli uffici vertenze del sindacato come finiscono i rapporti di lavoro costruiti sulla stretta di mano o sul passa parola.
Il reddito di cittadinanza, è meglio saperlo, aggraverà questa situazione. Così come la cassa integrazione straordinaria aveva creato negli anni 80 un mercato parallelo di lattonieri, carrozzieri, meccanici, imbianchini, piastrellisti, ecc. dediti ad un lavoro nero utile ad integrare il loro reddito e a far risparmiare chi vi si rivolgeva.
La differenza è che nel secolo scorso il fenomeno si era diffuso dove il lavoro dipendente era in crisi. Quindi anche nel nord. Ma esistevano altre modalità. Il reddito di cittadinanza, al contrario, si diffonderebbe dove il lavoro non c’è. Con tutti i rischi del caso per l’effetto moltiplicatore della realtà attuale.
I controlli saranno comunque inefficaci perché è evidente che si crea una complicità tra chi cerca lavoratori e chi ha bisogno di lavorare. Lotta all’evasione fiscale e al lavoro nero dovrebbero essere essenziali in ogni programma politico che si rispetti. Altro che indicare nel nuovo “caporalato” delle agenzie private del lavoro o nella guerra al lavoro domenicale nuovi obiettivi simbolici. Non è così.
C’è un mercato del lavoro parallelo in tutto il Paese. Al sud in modo particolare. Non serve fingere sorpresa. O indignarsi quando succede una disgrazia. Dai migranti che si infortunano in edilizia, guarda caso sempre il giorno in cui sono stati assunti, a chi si deve accontentare di una retribuzione inferiore a quanto scritto sulla busta paga. Al part time che prosegue in nero come fosse a tempo pieno. E si potrebbe continuare all’infinito.
E non credo si possa affrontare il problema relegando la soluzione ad una maggiore severità o numerosità nei controlli. O pretendere denunce dalla parte più debole. E’ indubbio che il lavoro nero danneggia tutti. Soprattutto gli imprenditori per bene. Però è una realtà talmente diffusa che non la si supera nascondendola sotto il tappeto.
C’è innanzitutto un tema di costo del lavoro non più rinviabile. Il carico di oneri fiscali e previdenziali è intollerabile per le imprese e per i lavoratori. A cominciare da quelli onesti. Da qui occorrerebbe partire. E non solo per i nuovi assunti. Il reddito di cittadinanza nei Paesi dove funziona non presenta le criticità di contesto connaturate al nostro mercato del lavoro.
In Italia ci sono circa 5 milioni di imprese. Nel 2017 ne sono state ispezionate 160.000, 103.500 i casi di irregolarità, il 65% del totale. Dal 2012 al 2017 i controlli sono diminuiti da 240.000 a 160.000. Ci saranno pur state buone ragioni ma questo è il dato. In tutto il 2017 i lavoratori irregolari sono cresciuti del 36% rispetto al 2016, 48.100 quelli totalmente in nero.
Personalmente più che attaccare il ministro Di Maio per ciò che ha fatto suo padre gli chiederei cosa intende fare questo Governo per affrontare un fenomeno che è ben più significativo dei dati che pur evidenziano una situazione gravissima. A mio parere basterebbe ascoltasse suo padre e le difficoltà che un piccolo imprenditore incontra ogni giorno.
Ed è solo partendo da questi problemi che si possono definire le vere priorità in tema di lavoro. Queste evidenti irregolarità producono effetti collaterali pesanti. Sulla previdenza, sulle entrate fiscali, sul quantità e sulla qualità del lavoro offerto. Sulla concorrenza. Quindi sul costo del lavoro e delle retribuzioni anche laddove le imprese applicano i contratti e le leggi.
Il salario netto per un giovane che deve scegliere se accettare ciò che propone il mercato del lavoro italiano non è comparabile a ciò che offrono altri Paesi. Più che “fuga dei cervelli” parlerei di ovvie determinazioni per chi se lo può permettere.
Per ritornare al reddito di cittadinanza, come possiamo pensare che un giovane del sud affronti costi e sacrifici personali per trasferirsi al nord in cerca di lavoro a fronte della possibilità di mettere insieme ciò che sembra promettere il Governo giallo verde per chi cerca un lavoro (che non c’è) con qualche euro della pensione del nonno e qualche lavoretto in nero? Così come sugli imprenditori disonesti che si avvarrebbero di mano d’opera a bassissimo costo grazie al reddito di cittadinanza.
Purtroppo si è capito che il punto di osservazione e di proposta del movimento 5s tende a semplificare realtà molto più complesse. Il lavoro, però, non si crea per decreto. Né distribuendo risorse se non si creano le condizioni per una solida ripresa economica. Le imprese, grandi e piccole, hanno bisogno di certezze e di fiducia nel futuro per competere. Le scorciatoie assistenzialiste non portano da nessuna parte. Prima lo si comprenderà meglio sarà per tutti.