Con il congresso della CGIL alle porte fa bene Dario Di Vico ad accendere i riflettori su ciò che gli osservatori più interessati forse sperano che accada in alternativa alla personalizzazione dello scontro in atto. ( http://bit.ly/2QTEA67 ).
La conclusione proposta da Di Vico è dura quanto, purtroppo, inevitabile:”È come se in questi lunghi anni della Grande Crisi prima e poi dell’affermarsi del populismo, la forza e l’intelligenza sindacale fossero rimaste congelate, come se la Cgil avesse scelto l’identità — per dirla con il politologo americano Mark Lilla — contrapponendola all’efficacia.”
Il sindacato, tutto il sindacato, da ben prima della grande crisi, si è incamminato, purtroppo, su un deriva identitaria che ha fatto emergere i limiti di un gruppo dirigente complessivamente ripiegato su se stesso. Questo ha sacrificato per lungo tempo il confronto sul merito e la convergenza su possibili iniziative unitarie che avrebbero potuto avere la funzione di mantenere una forte visibilità che in qualche modo potesse arginare i meccanismi e i propositi di disintermediazione che si andavano via via consolidando.
Da un lato la Politica che è inevitabilmente entrata in competizione diretta con i sindacati confederali sulla distribuzione del reddito e del lavoro a livello macro. Dall’altro le imprese dove il rapporto diretto con i lavoratori sulle modalità di assunzione, sui livelli salariali ma anche sulla crescita professionale ha messo in un angolo una vecchia cultura rivendicativa che si è trovata completamente spiazzata dalla realtà.
Il contratto dei metalmeccanici, che pur aveva segnato un possibile punto di svolta nei contenuti, non ha trovato nel successivo “patto della fabbrica”, pur voluto fortemente da Confindustria, una sponda significativa e questo ha riportato sostanzialmente al via l’intero percorso. Ripiegati ciascuno in casa propria, nessuno si è accorto che “Annibale era alle porte”. I mesi post elezioni politiche hanno poi cambiato tutto lo scenario economico e sociale.
Inseguire il populismo o creare le condizioni affinché i corpi intermedi (fronte lavoratori e imprese) ritrovino un interesse comune a collaborare su di un terreno nuovo dovrebbe essere la sfida centrale del congresso della CGIL.
Il fatto che entrambi abbiano sottoscritto un documento comune è del tutto secondario. Il mondo nel frattempo è cambiato e chi uscirà vincitore dovrà comunque farci i conti. Nella CISL nella UIL così come nella CGIL ci sono molti dirigenti che hanno capito che la direzione di marcia dovrebbe essere ben altra. Così come ci sono burocrazie consolidate che non hanno nessuna intenzione di mollare la presa.
Eppure solo se il sindacato riuscirà a ripartire concretamente dai luoghi di lavoro nei territori, misurandosi sull’innovazione e trovando nuovi equilibri che comprendano anche le esigenze individuali di crescita professionale e di formazione, si potranno creare le condizioni per un nuova stagione di protagonismo. E che, contemporaneamente, insieme alle imprese, sappia sviluppare un welfare efficace per generazioni diverse in un quadro di relazioni industriali nuovo che consideri l’azienda un luogo dove rischi e opportunità possono essere condivisi.
Anche perché quello che spesso viene sottovalutato è che i processi di disintermediazione non vengono solo dall’alto. E non è solo un problema di iscritti che votano in modo diverso dal passato ma di esigenze che si personalizzano e che vanno comprese.
Personalmente non so chi vincerà tra Landini e Colla. Né cosa erediterà il vincitore sul piano organizzativo. So che oggi la mancanza di un sindacato riformista, unitario, partecipativo, forte e autorevole non è un bene per nessuno. Neanche per le imprese. Lo si è visto con la politica.
L’indifferenza non porta buoni frutti. In nessuna stagione.