L’incombere delle elezioni europee e le liti giornaliere dei due partiti di Governo possono far ritenere una scelta consapevole l’esilio volontario che sembrano essersi imposti i corpi intermedi. Ma è proprio così?
Il sismografo sembrerebbe registrare in campo solo Confindustria che cerca di interpretare, pur in solitudine, il sentimento del cosiddetto Partito del PIL. Sul fronte sindacale, a parte i primi passi di Maurizio Landini, dopo l’exploit della recente manifestazione unitaria, solo Marco Bentivogli segnala la necessità di una ripresa di protagonismo che sembra ormai relegato alle sempre più rare dichiarazioni alle agenzie e alla convegnistica tradizionale.
Paradigmatica la situazione di Confcommercio. Reduce da Cernobbio dove non è uscito nulla di significativo e dove, più che per la presenza di Salvini sul lago di Como, ha fatto notizia l’assenza dello stesso a Roma dove a Villa Madama era in corso la cerimonia per la firma del Memorandum d’Intesa tra Italia e Cina, alla presenza del presidente cinese Xi Jinping e del premier Giuseppe Conte insieme ai ministri Luigi Di Maio, Giovanni Tria e Enzo Moavero.
Ripiegata su se stessa, probabilmente per le note vicende interne, Confcommercio sembra accontentarsi più delle assicurazioni governative sull’IVA che preoccuparsi della loro esigibilità concreta. Stessa assenza sul versante delle associazioni degli artigiani.
Eppure all’ordine del giorno i temi che richiederebbero ben altro protagonismo non mancano. Sul lavoro dove il tema dell’estensione erga omnes dei contratti e il salario minimo sembrano coinvolgere solo la parte sindacale del mondo della rappresentanza, sulle prospettive economiche del Paese, sulle disuguaglianze territoriali e generazionali e, infine, sull’Europa. Anzi.
Sembrerebbe addirittura che mentre le associazioni datoriali abbiano assegnato alla Lega e a Salvini la speranza e il compito di arginare l’azione dei 5S, i sindacati confederali abbiano individuato in Di Maio un potenziale interlocutore autoriducendosi in questo modo il campo da gioco. E non è certo sufficiente l’allarme di Marco Bentivogli che, dal suo punto importante di osservazione, ha sottolineato che “In questa fase il ministro dello Sviluppo Economico, Luigi Di Maio, è completamente assente”.
Ma quale può essere la ragione di questo immobilismo? Secondo il prof. De Masi la risposta è semplice. I corpi intermedi e con essi buona parte dell’establishment novecentesco non hanno capito nulla di cosa stava succedendo nel Paese. Né dell’aumento della povertà, né del divario concreto tra territori e generazioni. Hanno coltivato l’illusione che la crisi di identità fosse altrove e che bastasse fare un passo indietro per assistere al declino della politica salvaguardando così il proprio ruolo.
Soprattutto la loro insistenza nel continuare a cercare di accaparrarsi la loro tradizionale fetta di una torta che non c’è più segnala buona parte delle difficoltà identitarie attuali. Da qui tutto l’armamentario di prediche, dichiarazioni, ammiccamenti nella speranza di mantenere una interlocuzione con il Potere che faccia credere, soprattutto ai rispettivi associati, di essere in campo e di esercitare un ruolo vero come in passato.
Questa assenza dai radar della rappresentanza rende difficile anche una ripresa di protagonismo dell’opposizione politica sia di centro sinistra che di centro destra che si trovano entrambe fuori gioco e non in grado di arginare una deriva pericolosa che impatta pesantemente sulla qualità della nostra democrazia e sul futuro del nostro Paese.
Domandarsi se è in affanno questo modello di rappresentanza, almeno quello che abbiamo conosciuto fino ad oggi, perché incapace di leggere i cambiamenti e quindi di dotarsi di strategie efficaci non è una domanda retorica. Michele Tiraboschi, commentando un tweet di Francesco Rivolta ha sottolineato una verità scomoda: “La rappresentanza ha smesso di essere luogo di condivisione. È solo spazio da occupare”. Siamo veramente arrivati a questo punto?
L’impressione, da osservatore esterno è che sia, purtroppo, proprio così. Una rappresentanza, complessivamente intesa, tutta ripiegata su sé stessa, incapace di trovare un punto di convergenza che sappia interpretare il malessere della parte più dinamica del Paese rischia di essere utile solo alla propria auto conservazione.
Da qui il rischio che la fedeltà verso i rispettivi gruppi dirigenti faccia premio sulla lealtà e quindi sulla necessità che crescano le opportunità di dibattito interno proprio per poter meglio interpretare il nuovo che avanza. Marco Bentivogli parlando della politica più in generale ma intendendo con questo un mondo che ha confini più ampi ha sottolineato che “servirebbe una politica che non chiede conformismo e fedeltà, per nessun motivo. Bisogna ritornare al gusto e alla passione di discutere”.
Si incrociano quindi due esigenze. La prima interna ai singoli corpi intermedi che consenta l’emergere di punti di vista, idee, proposte, opinioni all’altezza delle sfide poste dai cambiamenti in corso. La seconda riporta in primo piano l’esigenza di sviluppare convergenze nuove che accompagnino l’evoluzione dei settori, il loro meticciamento, la fine di vecchi confini ideologici e culturali ormai finalizzati solo a mantenere poltrone e rendite di posizione. Il futuro della rappresentanza passa da qui.
Ma gli attuali gruppi dirigenti sono all’altezza di queste sfide e, soprattutto, sono intenzionati a farsene carico?