In una recente intervista a Repubblica David R. Giroux, chief investment officer equity and multi-asset di T. Rowe Price ha affermato: “Amazon è probabilmente uno dei fattori principali che stanno generando cambiamenti secolari per le altre società, in particolare nel settore del retail tradizionale, dei centri commerciali e dei supermercati”.
A questa realtà che ormai è evidente aggiungo l’affermazione di Luigi Consiglio, presidente di GEA, una delle più importanti società di consulenza strategica di livello internazionale, in risposta ad un tweet di Mario Gasbarrino: ”La marca è minacciata più del retailing. Ti racconterò.. (la) desertificazione industriale che Amazon sta creando in USA. Compri sempre al prezzo più basso ed uccidi l’innovazione. Comunque chi non lavora su R&D è fuori dai mercati a prescindere”. Uno scenario su cui riflettere a fondo.
Il fronte del cambiamento, quindi, coinvolge, di fatto, l’intera filiera. Personalmente non ho ancora dati sufficienti per misurarmi con quanto affermato sopra. Mi limito a prenderne atto e ad approfondirne le possibili conseguenze nei miei campi di interesse. Un dato sembra emergere con forza: l’insufficienza del sistema Paese e dello stesso mondo associativo tradizionale nel misurarsi su questi temi.
Di fronte a cambiamenti così profondi e prevedibili che stravolgono i ruoli nelle filiere non basta più evocarne i rischi nei convegni. Né pensare di impedire il cambiamento in atto così come, in passato è stato fatto da parte ad esempio, di Confcommercio rivolto alla politica dell’epoca, per rallentare l’espansione della Grande Distribuzione.
Lo stesso slogan: “stesso mercato, stesse regole” appare insufficiente quando i mercati sono sempre più globali e le regole nazionali, se ci sono, sono costrette ad inseguire. E questa riflessione non dovrebbe essere solo confinata ad una parte della filiera. Come suggerisce Luigi Consiglio l’impatto non sarà solo sul retail.
Per questo, a mio parere, occorrerebbe superare l’approccio delle realtà associative che dialogano con la politica come fossimo ancora nel 900 pensando di difendere ciascuno il proprio orticello. Realtà come Amazon, Uber ma non solo, sono ormai in grado di ribaltare logiche a cui le singole imprese, pur di grandi dimensioni, all’interno dei loro comparti non sono nelle condizioni di replicare se non con timidi balbettii o proteste protezionistiche.
La vicenda, assurda, delle chiusure domenicali è, sotto questo punto di vista, paradigmatica. Il Governo gialloverde è arrivato addirittura a richiedere, alle associazioni di categoria, di formulare, esse stesse, una proposta di riduzione dei loro fatturati e dell’occupazione sotto la minaccia di un intervento manu militari. E la mediazione, faticosamente formulata, non ha ancora avuto alcuna risposta ufficiale da parte del Governo.
Incassato il SI delle associazioni, nessuno, a livello politico, sembra interessato ad approfondire né il contesto né le conseguenze per le imprese della GDO, i suoi diversi sottosettori, le situazioni di crisi, i fornitori, le attività collegate. L’impatto sui consumatori. Né tantomeno affrontare il tema in una logica di filiera. Perché, piaccia o meno, le conseguenze colpiranno tutti i soggetti economici coinvolti. E ne favoriranno altri.
A parte le singolari proposte su fantasiosi stop alle vendite on line domenicali che lasciano il tempo che trovano, non c’è alcuna visione della filiera né da parte di chi, nel Governo, che ascolta soprattutto i Cobas, né dalle associazioni di riferimento che tirano un respiro di sollievo solo per avere, forse, limitato i danni.
Ma la profondità del cambiamento in corso merita tutta questa superficialità politica e questa sottovalutazione delle conseguenze imposte alle imprese e alle attività che coinvolge anche altri settori? E’ chiaro che un intesa intelligente presupporrebbe un negoziato vero dove tutti questi e altri aspetti dovrebbero essere valutati, soppesati e inquadrati in una strategia Paese. Il punto di caduta avrebbe senso solo alla fine di un percorso di questo tipo.
Qui siamo all’assurdo. Riflettere sul peso dei giganti del web e del loro agire, valutare gli impatti e le nuove dinamiche che coinvolgono imprese e lavoro, gli investimenti necessari per l’intera filiera senza scomunicare nessuno né diffondere inutili fobie, credo dovrebbe rappresentare la vera priorità.
Partire dalla coda del problema, dalle chiusure festive o domenicali, indipendentemente dalla quantità su cui si può anche essere disposti a convergere, è, purtroppo, la fotografia di un sistema che cerca di uscire alla meno peggio da una vicenda che fa parte di una partita ben diversa. L’esatto contrario di ciò che servirebbe oggi.
L’esperienza collaborativa fatta con le centrali di acquisto e, perché no, con la stessa INDICOD a suo tempo, suggerirebbe di aprirsi ad un confronto nuovo che esce dall’angusto mondo delle logiche tradizionali dell’associazionismo datoriale odierno ormai ripiegato su sé stesso puntando decisamente a ricostruire un senso e una strategia in una vera logica di filiera.
Alle imprese il dovere di scegliere se il compito della rappresentanza deve essere limitato a tirare la vecchia coperta verso specifici interessi di comparto indipendentemente dall’attuale dimensione della coperta stessa oppure se, attraverso un nuovo modello di collaborazione, si riesce ad interpretare e quindi a rappresentare meglio realtà e interessi in gioco.
Alle associazioni o almeno a quelle più sensibili ai cambiamenti imposti dal contesto il compito di farsi carico di un atto di lungimiranza e non di semplice conservazione dell’esistente. Ne saranno all’altezza?