Grande Distribuzione. Il declino di un’epoca…

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C’è un destino che, purtroppo, le accumuna. UPIM, Standa, Rinascente, Sma, GS, All’Onestà hanno costituito per certi versi la spina dorsale del consumismo popolare post bellico. L’agonia è durata quello che poteva durare. Un declino inevitabile da cui si sono salvati in pochi.

Oggi solo UPIM, qualche ex GS, grazie ad un management che nel tempo gli ha cambiato i connotati e Rinascente grazie a all’ubicazione principale  in piazza Duomo a Milano e all’intuizione che l’ha trasformata in un contenitore di alto livello per grandi marche. Ma nulla a che vedere con l’identità di perimetro.

Per le altre non sono serviti i continui passaggi di mano, i piani di ristrutturazione infiniti, i tagli dei costi, gli interventi sulla quantità e qualità del personale. Non dimentichiamo che la cassa integrazione, concepita inizialmente  per l’industria, entra nel commercio e nel terziario attraverso le vicende che hanno coinvolto, a suo tempo, Standa. Certo, numerose catene e punti vendita, piccoli o grandi, sono stati ceduti e hanno ritrovato la loro ragion d’essere sotto altre insegne. Per queste, no. Un male oscuro sembra averne contraddistinto il declino.

Adesso tocca a SMA. Troppo piccola e diffusa territorialmente per costituire un ponte di rilancio alla presenza di Auchan nei negozi di vicinato, peraltro già in pesante crisi su altri formati, troppo complessa sul piano gestionale, logistico e organizzativo per interessare, nella sua interezza un unico soggetto, priva di un’identità specifica spendibile sul mercato.

Assediata dai soft discount e dall’inevitabile riposizionamento imposto dalla casa madre in crisi, rischia di essere trasformata in uno “spezzatino” dal quale si salverebbero solo i punti vendita più interessanti lasciando il resto della rete a rischio di chiusura o a disposizione di soggetti imprenditoriali locali che non vanno tanto per il sottile sul piano gestionale. Da qui la preoccupazione, legittima, dei sindacati sul futuro dell’occupazione.

Interrogarsi sul perché si è arrivati a questo punto, se tutto ciò fosse inevitabile, sulle responsabilità dei differenti  management che si sono succeduti, purtroppo, serve a poco. Così come il fatto che una cessione in queste condizioni non può che avvenire nel peggiore dei modi possibili.

Però alcune riflessioni sono legittime.

Innanzitutto occorrerebbe cercare di capire cosa ha ostacolato nel tempo e quindi impedito il rilancio di queste insegne. Un tratto comune ha riguardato, evidentemente,  l’insufficienza complessiva del management impegnato nei progetti di rilancio, l’incapacità di comprendere l’evoluzione dei modelli di consumo, il mediocre servizio al cliente, le rigidità interne dell’organizzazione modellate negli anni del boom e quindi affrontate solo sul versante dei costi, un middle management screditato dai continui cambi di rotta da imporre a propri collaboratori  e, infine, un forte cinismo e una conseguente devitalizzazione della cultura interna refrattaria ad ogni cambiamento perché già vissuto o ritenuto foriero di esclusivo peggioramento dell’esistente.

A questi fattori interni occorre aggiungere l’aggressività della concorrenza, l’impossibilità ad impostare qualsivoglia reazione stretti in una logica ferrea di riduzione dei costi che ha prodotto inevitabili conseguenze sui fatturati e sui margini, un costo del lavoro che inevitabilmente è cresciuto in forza dei cali di fatturato e infine i costi della logistica e degli affitti hanno fatto il resto.

Anche il sindacato del settore ha le sue colpe. La principale è di aver interiorizzato e fatte proprie queste culture perdenti e di aver seguito, chi più chi meno, la pancia dei lavoratori e le fanfaluche dei differenti management succedutisi negli anni. Ma prendersela con loro sarebbe come sparare sulla Croce Rossa anche perché hanno pagato un prezzo altissimo in termini di consenso per non aver capito e gestito i cambiamenti. Oggi, a differenza che in passato, la loro forza e la loro rappresentatività è ai minimi storici. E questo non è un bene.

Purtroppo, credo sia chiaro a tutti, non c’è alcuna soluzione possibile che salvi il perimetro attuale dei punti vendita e l’occupazione. Per questo occorrerebbe concentrarsi su come impegnare il MISE su un percorso innovativo che affronti il problema dei lavoratori coinvolti, circa 8000, le possibili soluzioni a livello territoriale sia per i punti vendita in sé che, in alternativa, per gli occupati coinvolti in chiusure, magari creando dei percorsi virtuosi per chi è sicuramente ricollocabile nel settore.

Occorrerebbe costruire una sorta di dote individuale che superi le vecchie logiche assistenziali e che sia spendibile con le imprese sul territorio sa in termini formativi che di costo. La crisi del comparto che colpirà insegne e formati necessita di strumenti nuovi. Nei grandi formati occorrerà prevedere per tempo  la nuova destinazione degli immobili per evitare che si trasformino in vuote cattedrali nel deserto così come, per gli occupati, potrebbe essere sperimentato, proprio a partire da questa vicenda, un modello di ricollocamento virtuoso sui diversi territori che non lascerebbe il singolo solo con i suoi problemi e il costo a carico della collettività.

Un epoca si sta chiudendo anche nella distribuzione commerciale. I giganti della rete e della logistica da una parte e i discount dall’altra lasciano spazio solo a chi è in grado di innovare e concentrarsi. Ma tutto questo ha un costo. Prevederlo e gestirlo rappresenta una sfida nuova da cogliere.

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