L’occupazione e i fatturati nella Grande Distribuzione in senso lato, dalle liberalizzazioni montiane ad oggi, sono aumentati. Chi dice il contrario non sa di cosa parla. Sembrerebbe logico affermarlo ma così non è, ad esempio, per una parte dei sindacati di categoria che, ciclicamente, elencano dati assolutamente strumentali per poter tentare di sostenere la tesi abolizionista.
Innanzitutto non va sottovalutato che, la loro difficoltà di lettura del contesto è data dalla conoscenza parziale del comparto complessivo (circa 200 mila occupati su un bacino di oltre 600 mila compreso l’indotto in termini di industria, servizi, piccoli imprenditori, trasporti e logistica). E ovviamente questa tesi è avallata da tutti coloro che pensano che un ritorno al passato sia auspicabile e magari senza alcun costo per gli occupati. Dovrebbe essere sufficiente la matematica per smontare le semplificazioni sui numeri del lavoro domenicale e festivo ma per ulteriore chiarezza ritorniamo di nuovo sull’argomento.
I due Decreti del Governo Monti, ormai noti come salva-Italia e cresci-Italia (D.l. 201/2011, convertito nella Legge 214/2011; D.l. 1/2012, convertito nella Legge 27/2012), hanno introdotto elementi forti di liberalizzazione nel settore del commercio. Il provvedimento di allora è importante anche perché ha messo in discussione le normative regionali sul commercio emanate nei dieci anni precedenti. Il salva-Italia, che è intervenuto sulla regolamentazione che si applica alla generalità delle imprese commerciali, ha così affrontato in modo radicale il tema della liberalizzazione.
I residui vincoli che limitavano la concorrenza, quelli rimasti dopo gli interventi, prima, della riforma del settore del 1998 e, poi, per effetto del D.Lgs. Bersani del 2006, sono stati eliminati. Da quella data e in forza di quei provvedimenti legislativi gli ingenti investimenti hanno interessato quasi tutti i settori che fanno riferimento a quella che, genericamente, viene chiamata Grande Distribuzione.
Centri commerciali, Outlet, specializzati food e non food, discount, ipermercati, supermercati, piccola distribuzione e, sempre grazie a quei provvedimenti, ristorazione, franchising, logistica, attività di svago, cultura, sanità privata, ecc. si sono anch’essi insediati nelle diverse tipologie disponibili modificando le loro stesse proposte commerciali e di servizio.
Solo la ristorazione commerciale con in testa Autogrill vede un 2018 con un +5% sul 2017 (circa 6 miliardi di euro) mentre per le prime dieci catene premium si arriva a un giro d’affari di 215 milioni con un +8 per cento. Continua a crescere il franchising nei servizi alla persona, nell’abbigliamento e nella ristorazione. I dati confermano la capacità del settore di crescere a ritmi superiori a quello generale del commercio.
A fianco delle varie tipologie di turismo conosciuto (religioso, scolastico, termale, congressuale, enogastronomico, ecc.) se ne è affermata in questi anni una nuova definita “turismo commerciale” che coinvolge milioni di persone italiane e di altri Paesi e che anch’essa ha prodotto occupazione e indotto.
Pensiamo, ad esempio, ad un outlet come Serravalle e ai suoi milioni di visitatori all’anno. Se prendiamo i dati ufficiali ci accorgiamo che al primo posto delle mete turistiche del nostro Paese resiste il Colosseo che nel 2017 ha registrato 7 milioni di turisti, in crescita del 10% rispetto all’anno precedente. A seguire c’è però Serravalle, il più grande outlet d’Europa che si trova in una posizione strategica tra Liguria, Piemonte e Lombardia: qui circa 5 milioni di visitatori l’anno. Anche la terza, la quarta e la quinta posizione sono occupate dai villaggi marcati McArthurGlen. Potrà non piacere ma è così.
Senza le liberalizzazioni tutto questo non si sarebbe messo in moto con questa forza. Basterebbe leggere, con un minimo di attenzione, lo studio di Bain & Company commissionato da Confimprese proprio per capire quali potrebbero essere le ripercussioni economiche dal punto di vista dell’occupazione qualora vada in porto l’introduzione della chiusura dei negozi la domenica.
L’indagine ipotizza che durante il primo anno di chiusure domenicali, ci potrebbe essere un taglio di 34 miliardi di euro di fatturato e ancora più grave 90mila posti di lavoro in meno tra addetti alla vendita, operatori del commercio all’ingrosso e nell’indotto (ristoranti, pizzerie, bar, vigilantes, franchising, addetti alle pulizie, alla logistica, ai trasporto, etc.).
Gli osservatori superficiali, al contrario, non affrontano il tema partendo dal 2011 ma fanno riferimento nei loro calcoli, sommando le singole procedure di mobilità aperte e certificabili dall’INPS delle imprese della GDO in crisi che rappresentano una parte modesta del comparto complessivo per arrivare a conclusioni ovviamente strumentali e sbagliate.
Oppure tentano di circoscriverle ad un area ben delimitata non comprendendo che alcune tipologie di business non sono identificabili territorialmente in logiche provinciali o regionali. E’ vero che le imprese in ristrutturazione (a cominciare dalle multinazionali del settore), hanno tagliato gli organici e il declino della piccola distribuzione commerciale è continuato ma l’analisi va fatta tenendo conto di tutti i fattori in campo. Compreso il danno che si provocherebbe proprio laddove la crisi sta colpendo duro.
In questi 7 anni si sono create nuove situazioni che devono essere comprese nei conteggi se si vuole essere seri. Acquisizioni, nuovi formati, investimenti, cambi di insegna, aperture di punti vendita, insediamenti di attività collaterali, piccoli esercizi in fuga dagli affitti esagerati dei centri città trasferiti nei centri commerciali, hanno cambiato il volto al comparto.
E tutto questo senza parlare delle modificazioni della abitudini di acquisto dei consumatori e delle PMI che vendono i loro prodotti tramite la GDO. O smaltiscono i loro stock di merce in giacenza nei magazzini. La stima fatta da Bain ipotizza un calo secco dei consumi del 12% circa.
Tra l’altro le aziende, con questi chiari di luna, stanno già limando autonomamente e al ribasso i loro piani di sviluppo per i prossimi anni. Così come i fondi sono in attesa di capire cosa succederà. I nuovi progetti sono tutti fermi. Certo, come è ovvio, l’e-commerce potrebbe guadagnarci. Si stima un 35% in più ma senza però alcun beneficio per l’occupazione. Anzi.
Da queste riflessioni ulteriori nasce un invito ad una maggiore serietà di chi crede che un ritorno al passato possa avvenire senza conseguenze o che in forza di queste decisioni i centri delle nostre città riprenderebbero a popolarsi improvvisamente del vecchio piccolo commercio tradizionale. Quel mondo è finito. Almeno nei termini del passato.
Certo c’è la crisi per alcuni gruppi e imprese. C’è chi chiude e chi si sta espandendo. Pensiamo ai discount così come ad altre formule, alle attività di entertainment o alle stesse imprese tradizionali che consolidano e sviluppano la propria occupazione puntando su nuovi formati interessanti.
E, infine, forse andrebbero maggiormente apprezzati gli sforzi che alcune di queste imprese stanno facendo per venire incontro alle esigenze dei loro lavoratori proponendo chiusure in alcune festività religiose o laiche. Sono segnali di disponibilità che andrebbero colti diversamente così da consentire un confronto a tutto campo.
Questi interventi gestiti in modo intelligente non hanno alcun impatto sull’occupazione, aprono alla possibilità ad un confronto di merito su incentivi, indennità e rotazione degli addetti e cercano di rendere compatibile l’esigenza del business con quella del lavoro. Credo rappresentino la strada giusta.