“Chi nasce tondo non può morire quadrato”. La saggezza dei proverbi non può non farci riflettere. Chi ha una certa forma mentale, una visione, un’esperienza consolidata, difficilmente le modificherà.
Secondo questa scuola di pensiero per il format IPER progettato negli ultimi cinquant’anni è game over. Nessuna speranza. Tutto ciò di cui parliamo oggi nasce dalle interessanti riflessioni provocatorie di Bernard Trujillo che ha tracciato i principi base di quella che oggi chiamiamo ancora la moderna distribuzione organizzata. Lavorando per NCR e vendendo registratori di cassa è stato il primo che ne ha intuito l’applicazione pratica e quindi il potenziale per il commercio.
Alla faccia dei TED odierni, l’incipit dei suoi seminari ai CEO delle grandi imprese del settore di allora era la richiesta di un minuto di silenzio alla futura memoria di chi, pur presente in sala, non era affatto consapevole che, il mutamento dello scenario competitivo, lo avrebbe cancellato dal mercato. Rude ma efficace.
Il termine “ipermercato” (hypermarché) fu inventato da Jaques Pictet nel 1966. Il primo viene aperto in Francia nel 1963 a Sainte-Genevieve-des-Bois nella periferia sud di Parigi. L’insegna? Quella di Carrefour. In Francia il leader di mercato è, da sempre, E.Leclerc con circa 600 ipermercati seguito da Carrefour con circa 250 e Auchan con 150. Seguono poi altre insegne sempre con presenze rilavanti (Casino, intermarché Hiper, Hiper U e Cora).
In Italia il primo ipermercato nasce nel settembre 1971 a Castellanza in provincia di Varese con insegna “MAXIStanda”. Oggi appartiene al Gigante della famiglia Panizza (un altro caso di successo italiano della GDO di cui si parla troppo poco).
Nel tempo sono stati suddivisi in sotto-categorie: dai 2 500 ai 4 000 m² (mini-iper), fino a 10 000 m² si parla di ipermercati propriamente detti, oltre i 10 000 m² si parla di megastore. Il formato superstore si sovrappone parzialmente ai mini-iper. La differenza la fa il peso del comparto no food. Centri commerciali e outlet, a loro volta, si differenziano per la presenza più o meno rilevante di altri negozi (in gergo: Galleria).
I più grandi ipermercati in Italia sono in provincia di Milano e sono francesi (Carrefour e Auchan) circa 16.000 m². Il più grande IPER di Coop è quello di Modena con 12.000 m². Questa, in estrema sintesi storia e fotografia.
Basterebbe questa complessità di lettura del fenomeno per tenere lontani gli apprendisti stregoni della soppressione del lavoro domenicale e festivo. Gli equilibri tra attività diverse, il lavoro che c’è dietro, le differenti tipologie di business, i modelli di consumo, i contesti territoriali, gli investimenti collegati, le sovrapposizioni, la concorrenza tra insegne nazionali e internazionali in regioni diverse, il crescente peso dell’Ecommerce e dei giganti della logistica e del web possono far comprendere, se non si è in malafede, i meccanismi molto delicati che regolano questi settori volgarmente identificati come GDO.
Tornando agli IPER, oggi è molto facile, limitarsi a suonare le campane a morto. Basta mettere in uno shaker virtuale tutte le ovvietà che si leggono qua e là supportate da dotte analisi e statistiche sui consumi e il gioco è fatto. L’ipemercato si trasforma così nella famosa donna di picche chiamata la “Peppa” se siamo in italia o “Chat Noir” in Francia. Chi ce l’ha in mano perde la partita. Auchan l’ha quindi mollata a Conad.
A me sembra tutto troppo semplice. C’è un bellissimo proverbio arabo che recita:”tra morto e morto e sepolto, c’è un enorme differenza”. E così come il buon vecchio Trujillo ha capito il potenziale del commercio moderno vendendo registratori di cassa e non frutta e verdura o progettando volantini e raccolte punti io credo che dovrebbero essere altri protagonisti quelli chiamati a contribuire al ripensamento di questo format in crisi: architetti, immobiliaristi, filosofi, sociologi, destination manager, ecc. ma anche semplici consumatori, giovani e meno giovani frequentatori di centri commerciali.
L’idea che a me, ad esempio, stimola è come riportare un luogo, spesso avulso dal contesto sociale, a ricostruire legami nuovi con il territorio in cui si è insediato, a suo tempo, magari forzatamente. L’importante è che non siano persone che hanno pregiudizi sui consumi o sui luoghi dedicati al consumo ad essere coinvolti. Sarebbe solo tempo perso.
Cosa può convincere ad andare di nuovo con l’auto o senza a qualche chilometro da casa a fare acquisti? Quali intrattenimenti, servizi, occasioni di incontro, per me, la mia famiglia e i miei figli possono farmi decidere in quel senso? Come creare formule incentivanti che non siano legate a scontistiche tradizionali? Come ridurre gli spazi di vendita in modo intelligente? Domande semplici già oggi molto presenti nelle aziende coinvolte. Purtroppo mancano ancora risposte convincenti e fattibili.
Aggiungo cosa fare in quei luoghi in caso di riconversione totale o parziale? Solo attività commerciali? Il costo degli affitti come può evolvere? Come e chi deve gestire eventuali sperimentazioni? Come impiegare gli esuberi prodotti dal ridimensionamento? Nel caso di chiusure, quali attività potrebbero essere insediate in quei luoghi? Certo, la crisi del formato è evidente ma limitarsi a pesare il fatturato per metro quadro, il costo del lavoro o il cambiamento degli attuali modelli di consumo potrebbe essere il vero limite di questo approccio.
La sintetizzo così: Gerard Mulliez davanti alla crisi del formato è rimasto paralizzato dai numeri e dai vincoli. Francesco Pugliese e i suoi uomini davanti allo stesso scenario hanno intravisto una grande opportunità. Questa è la differenza!
Il 3 febbraio 2014 all’Accademia dei Georgofili Bernardo Caprotti tenne una relazione molto interessante sulla GDO. Sull’argomento ebbe a dire: “La decadenza di un format comporta inenarrabili disastri commerciali e immobiliari, poiché aggiornare una catena di negozi di dimensione e formula definite (format) che divenga obsoleta, è un compito più che problematico…Posso solo dire che, in un Paese ove per realizzare un punto di vendita occorrono mediamente 12/15 anni, per poi intraprendere, acquistando un’area carissima per la sua rarità (ubicazione + destinazione d’uso) onde costruirvi un superstore, si può definire solo come un’operazione avventata”.
Credo che in questa malcelata ironia del fondatore di Esselunga stia il punto vero. Costruire, riprogettare, riconvertire non sono esercizi di stile. Impongono studi, ricerche, assunzioni di responsabilità, rapidità di decisione a tutti i soggetti interessati. Anche idee nuove. Vale per l’impresa coinvolta, l’associazione a cui aderisce, le istituzioni, i fornitori della filiera, i proprietari degli immobili, i finanziatori e le parti sociali.
La chiave è nella collaborazione e nella condivisione di rischi immediati in cambio di opportunità future. Un sito o più siti chiusi e abbandonati all’incuria e alla devastazione, inutili al contesto circostante non servono a nessuno. Neanche a coloro che, magari, non lo avrebbero neanche voluto aprire…