Gli operai di oggi tra voto sovranista e mobilitazione contro il Governo…

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L’indagine di Swg è chiara.  In un anno gli operai che hanno votato Lega sono aumentati del 29% raggiungendo il 48% dei votanti. Contemporaneamente sono crollati del 20% quelli che avevano votato solo un anno fa i 5S. La sinistra si è mantenuta sostanzialmente i suoi.

Il dato può sembrare eclatante soprattutto per chi ha in testa la cultura collettiva e di classe dell’operaio metalmeccanico del 900. Gli operai comunque intesi, oggi, sono poco più di sei milioni. I metalmeccanici non arrivano a 1.800.000. Se raddoppiamo quel numero abbiamo, occhio e croce,  il numero di operai dell’industria. Poco più della metà del numero complessivo. Gli altri sono nelle piccolissime imprese, nella logistica e nel terziario in generale.

Dario Di Vico, a pochi giorni dallo sciopero generale dei metalmeccanici proclamato contro il Governo ha lanciato un dibattito interessante. Questa migrazione verso i sovranisti della Lega così marcata ha le stesse caratteristiche dissociative di quelle precedenti o presenta elementi nuovi e specifici? E ancora. C’è una responsabilità della sinistra nell’averlo consentito? E, infine, questo rappresenta un dato irreversibile?

Per Mirco Rota sindacalista FIOM la responsabilità è chiaramente della sinistra politica che ha perso la sintonia necessaria. La cura individuata è, in fondo, semplice: più contrattazione, più salario e più diritti. Senza questa strategia sinistra e sindacato sono ininfluenti e quindi inutili. Peccato che, sul versante della politica, non è Salvini che propone questi obiettivi. Sono la vecchia sinistra sinistra in crisi e, in parte,  i 5S che però perdono consensi e voti. Quindi non è questa la strada.

Salvini parla di impresa, emigrazione, lavoro, fisco. Un messaggio interclassista. Soprattutto un  “Prima gli italiani” semplice e diretto. Fuori dal perimetro della grande industria il lavoro operaio è nelle piccole imprese, nell’artigianato e nel terziario dove la contrattazione aziendale è inesistente o quasi e dove la concorrenza tra lavoratori, non solo  italiani è forte. Dove i diritti sono di difficile tutela, il salario è basso e spesso il lavoro è a tempo determinato e precario. Non necessariamente nell’accezione giuslavorista di cui siamo abituati a discutere.

E, soprattutto dove il rapporto tra piccolo imprenditore e lavoratore è forte ma  ambiguo. Terreno fertile per la Lega. Non c’è solo preoccupazione per il futuro. C’è la convinzione che è una realtà incontrovertibile. In quelle situazioni, “Prima gli italiani”, funziona. Sinistra e sindacato propongono argomenti giusti che però appartengono ad una retorica che non scalfisce la cruda realtà del presente.

Nella GDO, nella logistica o nel terziario in genere, lo stesso sindacalista è percepito come distante, “nemico” dell’azienda ma inutile per risolvere i propri problemi. Meglio provarci da soli. La contrattazione aziendale non esiste o quasi, il passaggio di livello, in un inquadramento ormai datato, lo decide l’azienda, permessi, agevolazioni  o esigenze individuali sono spesso contropartite determinate dalla valutazione aziendale sui comportamenti singoli. Non appartengono più da tempo alla sfera dei diritti.

Fuori dal posto di lavoro c’è il resto. Il mutuo da pagare, i figli da crescere, il contesto di un qualsiasi quartiere periferico fatto di difficoltà di convivenza con culture diverse, oratori in crisi, scuole fatiscenti. Te la devi cavare da solo. “Prima gli italiani” funziona bene anche qui. Il rosario baciato in maniera superficiale ricorda il rapporto analogo che l’individuo ha con la religione. Battesimo, cresima, comunione. Poi ognuno per sé.

I  problemi nel quartiere come in azienda devono essere affrontati e risolti in solitudine. Purtroppo. Spesso non c’è comunità, solidarietà, senso di un destino comune da costruire. C’è un vuoto difficile da riempire se non c’è una solidità familiare, un’educazione e dei valori di riferimento. Elementi, questi, oggi  in crisi profonda. In questo vuoto e in questa mancanza di punti di riferimento concreti la paura di non farcela di essere solo e fragile e in un contesto darwiniano spinge all’autodifesa.

I nemici sono lì; dal pianerottolo fino ai confini con la Libia. Il nemico è il prossimo. Anzi. Tutti coloro che sembrano avercela fatta. O che vengono individuati come avversari solo perché piazzati in un’identica quanto angusta corsia di gara. La percezione è che si è inseriti in una realtà che ormai  ci sovrasta. Su questo, credo, il sovranismo funziona. Indica un nemico e una scorciatoia. Consente al più debole di sentirsi protagonista. Di riprendersi socialmente, un ruolo. Per sé, per la  propria dignità, almeno a parole.

La perdita della presa di coscienza del proprio ruolo sociale come classe e quindi una relativa condizione di passività collettiva rappresentano oggi la normalità. Su questo ha fatto breccia e poi è dilagato il sovranismo. Scorciatoie e risposte semplici alle paure individuali vs. una necessaria traversata del deserto per idee, valori e nuove disuguaglianze.

E’però il primo tempo di una partita molto lunga quella che abbiamo di fronte. La vecchia “sinistra sinistra” l’ha già persa. La nuova sinistra non l’ha ancora giocata. Ed è una partita che deve saper rimettere al centro la persona nella sua dimensione collettiva ma anche individuale. Quindi nel lavoro e nella società.

L’azienda deve diventare un luogo di partecipazione e di collaborazione superando le logiche obsolete di cui oggi è ancora intrisa. Anche da parte datoriale. Su questo la sinistra deve necessariamente imparare nuovi linguaggi e comportamenti che rimettano al centro il merito, l’innovazione, la crescita professionale individuale, quindi la formazione permanente, un welfare contrattuale  moderno ed efficace e saper aggiornare le tutele in un lavoro che cambia. Per dirla con uno slogan deve scegliere tra Marco Bentivogli e Maurizio Landini.

Così come nella società dove le paure e i problemi possono essere affrontati solo se la presenza continua e la capacità di mobilitazione ritornano ad essere priorità concrete. Ritornare nelle periferie non è solo un’operazione logistica. Non basta una sede o qualche militante. È un’inversione nell’approccio culturale. Altrimenti è una sorta di Casapound di sinistra.

E non può farlo la generazione che ripropone un modello novecentesco che ormai non esiste più. Una sinistra che appare come incapace di governare le contraddizioni laddove esplodono e si manifestano  concretamente viene percepita inevitabilmente come inadeguata.

Qui sta il punto. Della globalizzazione paure e guasti sono stati percepiti e cavalcati immediatamente. Opportunità e potenzialità per individui e comunità non hanno varcato le circonvallazioni delle città e non hanno raggiunto le periferie delle società contemporanee.

Credo che la sfida parta concretamente da qui cercando di evitare inutili contrapposizioni fittizie tra popolo ed élite. Non è su questo che si gioca la partita. 

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