Preistoria su cui riflettere. Millecinquecento esuberi, due stabilimenti da chiudere e una profonda riorganizzazione della rete di vendita. Al ministero del lavoro c’era Tiziano Treu. Da una parte del tavolo Danone, proprietaria dell’azienda, dall’altra i sindacati confederali dell’industria alimentare.
Sul tavolo un piano di ristrutturazione complesso per un’azienda che non era in crisi e che voleva continuare a fare risultato. Sulla carta un obiettivo difficile da realizzare. I vertici del gruppo alimentare francese stavano migrando da una posizione che aveva nella gestione delle conseguenze sul sociale dell’attività economica il suo punto di forza in Francia, alla voglia di quotazione in borsa. Convivevano forti contraddizioni al loro interno.
I primi rappresentavano il passato ed erano tutti francesi e di una certa età. I secondi erano nuovi manager anche di altre nazionalità. L’anziano Antoine Riboud era ormai fuori gioco. Il giovane Franck Riboud non era ancora sul pezzo. Galbani, in Italia, era il campo di battaglia scelto per regolare i conti tra i due schieramenti. I primi erano ormai convinti di soccombere. Si sentivano vecchi e, in parte, ormai superati e accantonati. I secondi assaporavano già la vittoria.
Il mio compito come DHR era di presentare il piano sociale ai top manager. Ad altri il compito di presentare il piano di sviluppo. Fui subissato da mille domande e trabocchetti. Difesi con forza le mie idee. In sostanza sostenni che il progetto elaborato sarebbe stato condiviso dai sindacati, senza alcun sciopero e quindi senza alcun danno di immagine né per l’azienda né per il gruppo. Pretendevo, però, autonomia, coinvolgimento delle parti sociali e risorse adeguate.
L’idea in fondo era semplice e complessa nello stesso tempo. Evitare prove di forza, non comprare i licenziamenti ma impegnarsi a non lasciare nessuno solo con il suo problema e condividere quindi impostazione, processo e soluzioni con il sindacato. I francesi avrebbero avuto così un’interpretazione all’italiana alle loro idee. I manager che puntavano alla borsa, i risultati.
Franck Riboud nel salutarmi mi disse: “Vorrei congratularmi per la sua interessante quanto ardita presentazione. E anche con chi pagherà se qualcosa dovesse andare storto”. Lasciai Parigi convinto di dover giocare fino in fondo la mia partita. Non avevo nulla da perdere.
I sindacati sfidarono subito la coerenza dell’impostazione del piano sociale chiedendo la cosiddetta “opzione zero”. In altri termini ad ogni esubero non volontario o prepensionabile avrebbero dovuto essere offerti fino a 2 posti di lavoro e a determinate condizioni. Per noi una complessa obbligazione di mezzo, per loro di risultato. Non ci furono però scioperi.
Vennero costituiti i COR (centri operativi di ricollocamento) distribuiti strategicamente nel Paese e costruito un modello innovativo di outplacement allora alle prime apparizioni in Italia. Nei COR lavoravano giovani che avevano, nelle loro esperienze, avevano avuto a che fare anche con carcerati, adulti, anziani, ecc. motivati e con contratti a tempo determinato della Galbani stessa.
Le persone individuate, già dalla CIGS, venivano accompagnate in un percorso di consapevolezza e preparate ai colloqui di lavoro. Se in difficoltà a sostenerli venivano addirittura accompagnate. Venivano anche formate ai nuovi lavori. All’azienda disponibile venivano proposte in distacco gratuito per diversi mese. Fino all’assunzione. Gli importi residuali concordati venivano incassati dall’azienda che quindi è come se avesse potuto contare su interessanti sgravi contributivi. I furbi vennero affrontati insieme ai sindacati. I siti dismessi furono ceduti ad altre aziende.
Ricordo un toccante incontro con l’allora arcivescovo di Mantova. In una sala gremita di lavoratori ci propose un sogno fatto da lui pochi giorni prima e una provocazione. Il sogno era che un angelo gli aveva fatto sapere che la multinazionale stava cambiando idea e che avrebbe continuato ad investire sul territorio. Un sogno appunto. In quella serata, carica di tensione, pareva semplicistico e impossibile. Si realizzò poche settimane dopo con le proposte di reindustrializzazione del sito da parte di un’azienda di produzione del siero dal latte, oggi ancora operativa. Come si dice, le vie del Signore sono infinite…
Poi in mezzo alla tensione provocò la platea con una semplice domanda. “Se voi doveste scegliere come investire i vostri risparmi scegliereste un’azienda cha fa utili a prescindere da come tratta i suoi lavoratori o un’altra che piuttosto di licenziare rischia di chiudere? Oggi vi sembrerà una domanda provocatoria e inutile. Ma un giorno capirete sia voi imprenditori che voi lavoratori che non c’è solo il profitto a cui tendere e che la contraddizione è dentro ciascuno di noi.” Era il 1997. Aveva ragione lui.
Ci vollero ancora due anni di gestione e una manutenzione continua delle contraddizioni che nascevano quotidianamente. Le continue indagini di clima segnalavano che i 4.000 dipendenti che continuavano a lavorare appoggiavano l’operazione. Era importante. Non ci sono solo gli esuberi. C’è anche chi, pur al lavoro, si rende conto di come potrebbe essere trattato in caso di futuro coinvolgimento personale. I sindacati confederali si consolidavano come interlocutori autorevoli e il piano sociale proseguiva nei suoi capisaldi.
Delle risorse economiche messe a disposizione del Gruppo Danone si spese meno della metà. Erano inizialmente calcolate per “comprare i licenziamenti” non per ricollocare le persone. La fase finale dell’accordo ebbe come protagonisti sindacalisti come Uliano Stendardi, Giampiero Sambucini e Susanna Camusso. Fu un successo a cui ho potuto dare il mio contributo. Ma fu un successo collettivo altrimenti impossibile da realizzare. Non fece purtroppo scuola.
Troppo impegnativo in un mondo che vuole rimuovere problemi e persone scaricando doveri e responsabilità. Le politiche attive non funzionano se non c’è una corresponsabilità. Non ci sono tecnicismi o strumenti operativi senza impegno sociale. O almeno questa è la lezione che io ho imparato sul campo.
Dott. Sassi è una bella storia di un’operazione riuscita con il contributo delle politiche attive. Ma quale storia scriverà BDC e Conad per essa, precipitata nella complicatissima situazione Auchan?
La vicenda Auchan-Conad, in vista degli interventi che si ipotizzano indispensabili nel mondo Auchan, suggerisce di verificare, dati specifici alla mano, se le (sempre più marcate nel tempo) ingerenze in tutti i momenti organizzativi e decisionali della filiera dei consorziati ( nello specifico le 7 cooperative che coprono il territorio nazionale) ed i loro soci, possa raggiungere un livello tale da far ritenere che la sola autonomia restante in capo a questi ultimi sia quella della loro soggettività giuridica indipendente. Ed una volta verificato ciò, suggerisce di indagare se la mancanza di una formale partecipazione ai momenti gestionali dei rapporti di lavoro intrattenuti dai consorziati, dai loro controllati e dai loro soci, sia o meno rilevante ai fini della valutazione – quanto meno a certi fini – di un solo centro di imputazione dei rapporti.
Ci si riferisce, ovviamente, in particolare ai momenti di crisi e criticità diffuse da cui derivino esigenze di riduzione e ristrutturazione delle risorse umane.
L’acquisizione da parte di BDC Italia dell’intero pacchetto azionario Auchan, determina per la prima volta nella storia di Conad l’esigenza di confrontarsi con un modello di commercio di rilievo nazionale, articolato in tipologie molto simili a quelle del suo sistema, ma gestito da un soggetto unitario di grande tradizione storica e con un enorme prestigio raccolto sul campo, ad onta della crisi degli ultimi anni. Un’azienda che da un lato necessita verosimilmente nella sua rete di forti interventi di ristrutturazione e rimodulazione al fine di invertirne la tendenza negativa, e dall’altro sembrerebbe indirizzata a diventare destinataria dell’obiettivo tendenziale di Conad di far confluire tutti i singoli esercizi nel suo frastagliato Sistema.
Sappiamo che esso si fonda su una soluzione di base semplice e geniale al tempo stesso che consente di esercitare il commercio, usando una semplificazione, ottimizzando gli elementi positivi che lo possano favorire e neutralizzando quelli potenzialmente critici che lo possano pregiudicare.
In particolare la sua forza – Lei lo ha riconosciuto – è proprio la minuziosa frantumazione dei player unita alla granitica unificazione di tutte le insegne sostanzialmente sotto una sola bandiera, con l’aggiunta determinante di un modello organizzativo (o per meglio dire di tanti modelli organizzativi quante sono le tipologie di esercizi), deciso a livello centrale.
Si tratta di un fenomeno molto complesso fatto di legami e punti di convergenza molto articolati che non si risolve nel classico sistema delle società collegate/controllate. V’è di più: c’è il controllo delle fasi dell’organizzazione che si aggiunge al collegamento societario dato dalla composizione del Soggetto centrale fatto di tutte le Società cooperative territoriali che vi confluiscono. Sicché al controllo si aggiungono forme di partnership sempre più stringenti che possono vincolare quanto i vincoli interni decisi da un soggetto unico.
Rispetto ad un soggetto unitario che gestisca una fitta rete di esercizi commerciali delle medesime tipologie di quelli gestiti da Conad (Ipermercati, Superstore, Supermercati, e così via), la forza del Sistema Conad è intanto quella di basarsi su un insegna unica invece che frazionata in una pluralità di insegne; e su una molto più capillare copertura del territorio; ma soprattutto su un esteso frazionamento del rischio, accompagnato da un corrispondente dilatato moltiplicatore delle motivazioni; soluzioni raggiunte attraverso la sostituzione, nel ruolo di responsabili dei singoli esercizi, di imprenditori autonomi (ma in cosa?) ai quadri ed ai dirigenti, tipici del soggetto unico del quale si è acquisita la proprietà.
Forse è questo il segreto semplicissimo per il quale il personale, da componente determinante, ma al tempo stesso indissolubilmente problematica del progetto generale, diventa componente importante sì, ma depurata dalle problematicità tipiche e molto più facilmente gestibile e motivabile.
Questa sì la scoperta dell’acqua calda: un network di piccoli imprenditori che avvolti da un’unica bandiera combattono meglio (perché più motivati) di un unico grande in cui al posto suo ci sarebbero dei quadri o dei dirigenti?
Ma in realtà – è questo il punto – chi gestisce davvero?
Per saperlo si dovrebbe stabilire fin dove si spingono i vincoli organizzativi nei confronti delle risorse a vario titolo impegnate; i singoli imprenditori che operano in maniera apparentemente autonoma servendo un’insegna e la sua bandiera con l’osservanza rigorosa di tutte le regole fissate a livello centrale.
Credo sia illuminante sul punto una frase emblematica pronunciata da Ferrarini in un’intervista di qualche giorno fa, mi pare sull’Eco di Bergamo: “L’idea nostra resta sempre quella di non GESTIRE i punti vendita IN MANIERA DIRETTA”. Ecco questo aiuta a capire la forza del modello vincente : GESTIRE sì, ( quindi condurre, amministrare, coordinare; in una parola comandare), ma attraverso migliaia di nomi diversi: insomma il frazionamento (ed anzi l’eliminazione) del rischio accompagnato all’unificazione di ogni momento organizzativo, cioè alla GESTIONE di tutto, ad eccezione del rischio appunto.
Dubito che l’applicazione (complessa e dolorosa) di questo modello ai dipendenti di un’Azienda unitaria storica si accompagnerà al rispetto dei valori acquisiti: valori da soli certo insufficienti ad evitare il pericolo della catastrofe, ma non certo per la mancanza di frazionamento del rischio e per la scarsa motivazione dei dipendenti, ma soltanto per scelte centralizzate sbagliate.
La vera abilità di Conad – o meglio di BDC nuova proprietaria di Auchan – si esprimerebbe davvero non nel rimodellare l’Azienda di cui è diventata proprietaria, spezzettandola in tanti segmenti per poi lanciarne i numerosi frammenti che ne derivano nella Galassia Conad, ma nel risanarla; facendo scelte commerciali ed organizzative che la vecchia proprietà non è riuscita a cogliere.
Invece, fare quello che si è preannunciato sarà pure complesso giuridicamente, ma tutto sommato non è esattamente la stessa cosa che “risanare” ed accettare la sfida di manifestare sul campo della competizione maggiori abilità dei predecessori; direi che si risolverebbe piuttosto nel trasformare e destinare alla rottamazione un’azienda, cannibalizzandola.
Grazie sempre dell’ospitalità.
Vedremo presto come e chi la scriverà..