«E non aspettavamo una vittoria, non ci poteva essere la minima speranza di vittoria. Ma ognuno voleva avere il diritto di dire ai propri figli: Io ho fatto tutto quello che ho potuto”» V. Bukovskij
Nelle aziende parlano soprattutto i risultati economici. In politica i risultati elettorali. I manager aziendali e i gruppi dirigenti dei partiti cambiano e si rinnovano così. A decidere sono i consigli di amministrazione e gli elettori. Nelle due esperienze “miste” di partito azienda, Forza Italia e, di fatto i 5S, se consideriamo come tale anche la Casaleggio Associati, i risultati elettorali non sono sufficienti. Serve anche un feeling speciale con il capo azienda.
Di questo mondo ormai conosciamo quasi ogni aspetto. Chi decide, da dove arrivano le risorse economiche, i meccanismi di potere e le dinamiche collegate alla, supposta o reale, democrazia interna.
Le primarie, pur non essendo strutturate e condivise da tutti i partiti, hanno rappresentato un ulteriore passo in avanti nella selezione stessa dei gruppi dirigenti di vertice. Ci sono, ovviamente, altre cose che non funzionano ma, il momento elettorale, premia o punisce, e quindi produce conseguenze sugli stessi gruppi dirigenti.
Nelle organizzazioni di rappresentanza non è così. Non c’è nessun legame tra risultati e leadership. Queste ultime, in alcuni casi, si susseguono a scadenze date, in altri perpetuano sé stesse ad libitum. In alcuni di questi casi si burocratizzano al punto da non essere più né contendibili né scalabili. Si trasformano quindi in una sorta di emirati ereditabili esclusivamente per affinità personali grazie alla fedeltà al leader in carica, alle sue convinzioni e ai suoi ritmi. Non certo ponendosi l’obiettivo di immaginare il futuro. Né provando ad essere centri di elaborazione di idee e proposte da mettere a disposizione del Paese.
Quando un’organizzazione di rappresentanza non è contendibile, se non sul piano formale, la capacità di mettersi un discussione, di innovare e di aprirsi alle sfide del cambiamento viene meno. Addirittura vengono messi in atto meccanismi di selezione delle leadership interne che la compongono che premiano esclusivamente la fedeltà a scapito della lealtà, della competenza e del merito. Quindi la qualità dei suoi gruppi dirigenti tende a risentirne pesantemente.
Difficile accorgersene dall’interno. E questo stato determina delle aberrazioni evidenti. Non solo di resistenza a qualsivoglia cambiamento che porti rischi ai cacicchi che circondano l’emiro ma anche una sottovalutazione dell’impatto nel tempo sull’immagine e sulla credibilità dell’organizzazione destinate inevitabilmente a deteriorarsi. Da qui ciò che dovrebbe preoccupare più di ogni altra considerazione.
Confcommercio si era posta queste preoccupazioni e, nel 2014, aveva dato vita ad un nuovo statuto che poteva consentire un cambiamento a partire dai territori e dalle federazioni. Ricordo l’eccellente lavoro di allora del vice presidente Ugo Margini. In altre parole il suo gruppo dirigente ma anche l’anziano Presidente, pur espressione di un meccanismo elettorale che premiava gli accordi preventivi, rinunciava con generosità ad alcuni dei suoi privilegi (non tutti) proponendosi così di aprire una fase nuova.
Il sogno, però, è durato poco.
La paura di dover fare i conti con dinamiche interne imprevedibili (la possibile costruzione di gruppi dirigenti alternativi a chi detiene saldamente il potere ma anche il solo rischio di dover gestire un semplice aumento incontrollabile del confronto interno) li ha fatti recedere. Troppe rendite di posizione rischiavano di essere poste in discussione. Con la decisione di ripristinare lo Statuto precedente qualsiasi segno di dibattito vero verrà così fagocitato o emarginato. Un errore dovuto alla tracotanza dei numeri a disposizione ma che dimostra la mancanza di visione del futuro.
La fine di un ciclo politico e personale evidente dovrebbe coincidere con la necessità di aprirsi e non di ripristinare l’ordine precedente manu militari. In altri termini quello che è apparentemente il punto di forza della Confederazione, la sua ricerca dell’unanimismo intorno al suo Presidente, a mio parere, rappresenta, però, anche il suo limite in una fase di ricerca e di cambiamento.
Vale per Confcommercio ma può valere anche per altre organizzazioni di rappresentanza. Per questo è interessante approfondirne le dinamiche. I gruppi di potere che le governano spesso confondono la burocratizzazione delle sue élite e i privilegi che ad esse derivano con la convinzione di essere nel giusto e vanno così dritti verso la paralisi. C’è un monolitismo determinato dai numeri e dagli interessi, a volte anche personali, in gioco. Chi distribuisce le carte e chi ne trae un beneficio immediato rendono non contendibile né scalabile la Confederazione. Così come altre organizzazioni simili.
Possono solo implodere o continuare a vagolare senza meta nel sistema della rappresentanza venendo progressivamente meno al loro ruolo. La Confederazione è in un vicolo cieco da cui non riesce uscire. Come ho già scritto, senza Sangalli la Confcommercio non va da nessuna parte ma con Sangalli non arriverà da nessuna parte. Per certi versi mi ricorda il declino della Kodak. Una grande azienda che non si era resa conto che, intorno ad essa il mondo della fotografia stava cambiando. Era concentrata esclusivamente su di sé. Non si aspettava concorrenti esterni pronti ad invadere il suo campo. Ed è finita male.
Il mondo del terziario sta cambiando e necessiterebbe di una leadership e di una nuova generazione di imprenditori (più per cultura e propensione all’innovazione che per età) che lo sappiano interpretare a 360°. Esattamente il contrario di quello che sta avvenendo. Pur non condividendo alcune sue forzature ha certamente ragione Roger Abravanel (http://bit.ly/31Y7Xej) quando sostiene che “Nel mondo dei servizi i limiti del familismo aziendale sono fatali.” Ma siamo sicuri che non si sia consolidato nel tempo anche una sorta di familismo interno anche alla Rappresentanza finalizzato a perpetuare solo i meccanismi di potere? Familismo che nutre, e si nutre a sua volta di modesti personaggi che annuiscono come cagnolini da cappelliera d’auto per accaparrarsi qualche briciola.
Il terziario di mercato non ha più bisogno di vecchie lobby che guardano al passato concentrate su loro stesse e sul mantenimento dello status quo. Ha bisogno di leadership che sappiano interpretare le nuove esigenze con chiavi di lettura aggiornate. E tutto questo non è dato dalla produzione di inutili interviste che non chiariscono mai la propria posizione in campo.
Basta confrontare la recente intervista di Carlo Bonomi, Presidente di Assolombarda (http://bit.ly/2NilcmP) con una analoga, temporalmente, dello stesso Carlo Sangalli (http://bit.ly/2NlWjGL) per farsi un’idea della differente capacità di lettura del contesto. Precisa e puntuale la prima, debole e vagamente predicatoria la seconda. Si rivendica, certo, però senza disturbare il manovratore. Anche quando è evidente che sta portando il Paese alla deriva. Sembra manchi, purtroppo, la sintonia necessaria con il contesto politico, economico e sociale. Il rischio è che questa mancanza di sintonia e della conseguente subalternità stia prendendo un po’ tutto il sistema della rappresentanza datoriale.
Ergersi a rappresentante esclusivo di una quota importante del PIL quando non si hanno proposte e comportamenti coerenti anche sul piano organizzativo non porta da nessuna parte. E, se vogliamo essere onesti, Confcommercio è oggi in serie difficoltà come titolare della rappresentanza di un terziario moderno. E non basta l’ufficio studi quando si è troppo misurati, lenti e ferraginosi nell’accompagnare le proprie federazioni di punta in questo cammino.
In questo modo queste ultime rischiano di non crescere, di non avere il peso che potrebbero avere, di apparire meno competitive di altre anche perché restano ingabbiate nel freno a mano che esercitano, sul centro nazionale, le esigenze di alcune associazioni territoriali che si ritengono l’ombelico del mondo. Mentre altre si devono arrangiare con i pochi mezzi che hanno.
Le crepe, prodotte nel tempo, sono già evidenti e percepibili ad occhio nudo. Federdistribuzione è stato il primo segnale. La stessa Confesercenti ha segnato un punto a suo favore inimmaginabile, fino a qualche anno fa, firmando un suo specifico CCNL, Confimprese e Confindustria rischiano di provocarne un altro tra poco. Nel turismo stanno riemergendo insoddisfazioni evidenti. Gli stessi strappi sul contratto del turismo tra Fipe e Federalberghi hanno indebolito l’immagine complessiva della rappresentanza confederale. E, si badi bene, tutti impegnati esclusivamente in un dumping salariale tra di loro. E adesso, oltre ai contratti pirata che infestano il comparto, è in arrivo il rischio del salario minimo. E così anche la stessa leadership sulla contrattazione nazionale rischia di essere messa in discussione.
Che dire. Basta osservare l’attuale Ufficio di Presidenza confederale, oggi decimato dalle defezioni imposte dalla recente restaurazione, che assegna i maggiori ruoli operativi e, di fatto il peso interno, a due vice presidenti espressioni di Associazioni territoriali che probabilmente faticherebbero ad affermare una qualsivoglia leadership addirittura nelle loro regioni e a negarlo, nei fatti, ad altri due componenti espressione di federazioni importanti che al contrario vivono le contraddizioni tra un terziario innovativo e uno, considerato erroneamente tradizionale entrambi, però, alle prese con grandi cambiamenti.
I primi vicepresidenti, quelli cooptati, seguaci attenti del famoso engastrimando (personaggio profetico della repubblica ateniese che emetteva suoni come i ventriloqui poi raccolti da sacerdoti per trarne oracoli); in altri termini il settantacinquenne assistente del presidente. I secondi a cui è stata messa, di fatto, la mordacchia. Sotto una platea attonita e silente.
Ma così è. La navigazione a vista è assicurata. Io insisterò da un punto di vista esterno continuando ad osservare con la lente di ingrandimento questi fenomeni provando a condividerli. Ho una fortuna. Non ho interessi personali da difendere né candidati da indicare. Spero solo che all’interno si apra un dibattito vero e che ciascuno si assuma, per tempo, le proprie responsabilità.
Bravo, analisi perfetta. Complimenti.